Category Archives: Lotte di frontiera

Calais: Appello alla mobilitazione contro gli sgomberi imminenti

[di Calais Migrant Solidarity]

L’imminente distruzione della jungle e la dispersione di massa forzata di persone provenienti da Calais non sono fatti isolati. Essi fanno parte di una più ampia strategia del governo francese, che lavora in tandem con altri governi per segregare, attraverso la violenza, le persone con i documenti da quelle senza documenti, il bianco e l’altro, il ricco e il povero; per bloccare le persone nei campi, nei centri di deportazione, e nelle prigioni, per costringere le persone a tornare in paesi in cui rischiano ulteriore prigionia e morte.

Il governo prianifica di fingere di dare alle persone una scelta: salire su autobus diretto verso i centri di accoglienza temporanea (CAO – centri di accoglienza) o essere espulsi dalla Francia (con un decreto OQTF). Inoltre, ci sono state deportazioni (giustificate dal Trattato di Dublino) dai CAO e non ci sono garanzie che esse cesseranno di avvenire. Alcune persone che hanno le impronte digitali in altri paesi europei, come l’Italia, sono espulsi li. Da tutti i paesi europei, i migranti sono deportati più indietro in gran numero, anche nei paesi di provenienza.

Ora sono aumentati gli arresti, alle persone viene impedito l’accesso alle stazioni ferroviarie in base al colore della loro pelle. La polizia di Calais ha ordine di eseguire almeno 80 arresti al giorno e il maggior numero possibile di deportazioni. Questo fa parte dell’operazione di sgombero. Le persone vengono catturate in massa, e il centro di espulsione a Calais è in fase di espansione.

Alcune associazioni umanitarie che lavorano nella jungle stanno collaborando a stretto contatto con il governo: invocano sgomberi «umani» o «più sicuri». Non esistono sgomberi umani! Non ci sono sgomberi sicuri!

A chi porta beneficio questa soluzione? Non a chi rischia l’espulsione, non a quelli che vogliono andare nel Regno Unito, non ai francesi oppressi dalla macchina del capitalismo, per i quali il governo non ha la pretesa di fornire alloggi sia. Godono le agende dei politici, in attesa delle elezioni. Godono le multinazionali che fanno profitti miliardari da operazioni di sgombero di massa e progetti di militarizzazione dei territori, a Calais, e altrove.

Quando avvengono sgomberi le persone sono costrette in ulteriore precarietà ed esposte a un maggiore pericolo. Se accade come previsto, ci sarà la violenza dalla polizia, e coloro che tenteranno di rimanere nella zona dovranno trovare un altro posto per dormire. Coloro che cercano questo si troveranno ad affrontare un rischio di espulsione, che la polizia eseguirà con chiunque non entri in “Accoglienza”.

Con più recinti e filo spinato, le persone cercano modi più pericolosi per attraversare le frontiere. Ci sono stati 15 morti noti al confine qui a Calais, nel solo 2016.

Le politiche oppressive di confine non sono isolate a Calais. La lotta contro le frontiere e lo spettacolo della solidarietà per coloro che sono oppressi non sono isolati a Calais. Mentre la polizia si prepara ad aumentare ancora la repressione di migranti e solidali, le persone si preparano a lottare contro l’oppressione in vari luoghi. Ci sono stati appelli in tutta la Francia per mostrare solidarietà a coloro che devono affrontare lo sgombero a Calais e combattere le società che traggono profitto qui. Questo è l’appello da Calais per voi, per combattere il meccanismo di confine nei luoghi in cui vi trovate.

Questo non significa che non si debba venire a Calais. Se siete stati qui prima, siete piuttosto autonomi e avere un’idea chiara di ciò che si vorrebbe fare, ci saranno persone che potrebbero avere bisogno di supporto durante e dopo gli sgomberi.

Se non siete mai stati a Calais prima, avete bisogno di un sacco di informazioni sulla situazione, e non avete una buona idea di ciò che si vorrebbe fare per portare solidarietà attiva a sostegno delle persone che vengono sgomberate e di fronte alla violenza del confine, ora può essere un momento difficile per arrivare.

  • Invitiamo le persone a fornire soluzioni abitative dignitose e spazi accoglienti nelle loro città perché molte persone che vivono nella jungle lasceranno Calais!
  • Chiediamo azioni decentrate nelle città contro le società che traggono profitto dalla miseria umana!
  • Chiediamo la distruzione delle prigioni e dei centri di espulsione in tutta Europa!
  • Chiediamo la solidarietà nella lotta contro il confine!

15 ottobre 2016

CMS – Calais Migrant Solidarity

[Appello in francese: 
https://calaismigrantsolidarity.wordpress.com/2016/10/15/call-out-against-the-coming-evictions/]

PER FARLA FINITA CON L’IDEA DI SINISTRA PER SUPERARE IL NON-MOVIMENTO.

da Autonomia Diffusa Ovunque – 3 giugno 2016
Sala ha vinto le primarie, come ha vinto Expo, così come sta vincendo il partito della nazione, un progetto politico che mira ad unire le personalità e i gruppi di potere progressisti e dinamici dell’Italia sotto la bandiera del nuovo partito del neo-liberalismo italiano, il PD. Le conseguenze su larga scala le stiamo vedendo con l’eliminazione degli ultimi residui di welfare sociale, con una zona di indistinzione sempre più palese tra politica, polizia e magistratura, con il governo dei commissariamenti che attuano di fatto gli interessi di una classe politica ed economica che cerca di mantenere i propri privilegi sulla pelle di tutti.
Chi sta dall’altra parte della barricata, chi dal basso cerca un cambiamento reale, dove si posiziona in questo momento? C’è bisogno di autocritica e di cambiamenti radicali per poter fare piazza pulita degli errori collettivi fatti negli ultimi decenni, e per dissipare la confusione generale di un non-movimento disgregato in parrocchie impegnate più a mantenere la propria schiera di fedeli in disfacimento che a costruire comunità, pensieri e pratiche di autodeterminazione e un immaginario rivoluzionario.
Il Primo Maggio milanese ha segnato un momento di rottura e dopo un anno bisogna riflettere sul divenire: non tanto per trovare colpevoli o innocenti, né tanto meno per misurare i muscoli, ma per trovare alla radice il problema di un fallimento collettivo nato tanto tempo addietro. Lo smarrimento generale dopo la Mayday del 2015 ha solo mostrato l’inconsistenza di un modo di concepire la lotta privo di idee, proposte e pratiche di cambiamento reali, poco coraggioso e troppo ingenuo, debole credendosi furbo, poco proletario e molto borghese. Un movimento non si sviluppa né muore in quattro incroci e quattro vie vittima di qualche vetrina rotta e qualche macchina incendiata. Il primo maggio non è stato ne l’inizio né la fine di qualcosa, ma l’affermazione di una debolezza e di una contraddizione collettiva. Soffiamo su queste ceneri, e ci apparirà sotto un mondo che palpita.
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Perché un non-movimento?

Un movimento è l’espressione dei percorsi, delle lotte, del conflitto locale e nazionale. Un movimento ragiona in termini di avanzamento e non di auto-rappresentanza, mette insieme esperienze, risorse, idee, ipotesi e le mette in pratica. Ma soprattutto questi percorsi dovrebbero avere una prospettiva territoriale, essere in grado di far nascere forme di vita e di creare una forza collettiva che agisce nel territorio in termini di costruzione di comunità solidali e conflittuali. Questo vuol dire gettarsi nella mischia a partire dai luoghi in cui siamo, ascoltare e discutere in modo orizzontale e collettivo, rompere le barriere della diffidenza e della paura. Non pensare a sé stessi ma alla potenza comune di un movimento rivoluzionario.
I movimenti di lotta per la casa degli ultimi anni, nonostante abbiano portato in piazza o davanti ai picchetti contro sfratti e sgomberi migliaia di persone, nella maggior parte migranti, nonostante in certe occasioni fossero dei veri e propri movimenti di massa, ora si trovano intrappolati tra la debolezza della prospettiva collettiva e l’accelerazione sfrenata a livello legislativo e repressivo, che se non impediscono di certo riducono di tanto la riproducibilità di pratiche di massa come l’occupazione e addirittura colpiscono con leggi come l’art.5 le fondamenta di una vita in lotta. Di pari passo c’è la difficoltà di inserire percorsi di riappropriazione nel tessuto territoriale e di rompere le barriere tra occupanti e non occupanti, tra italiani e stranieri.
Pensiamo all’eccezionale lotta che i facchini combattono davanti a centinaia di stabilimenti e magazzini. A parte la partecipazione e la solidarietà espressa da tanti compagni generosi, quel blocco conflittuale e di classe non fa parte di quello che si intende tradizionalmente come movimento. Nonostante ciò la questione dell’agibilità e del rapporto di forza è la regola in tanti magazzini e stabilimenti della logistica dove centinaia di lavoratori iscritti al Si Cobas esprimono una resistenza ed un attacco che mettono in difficoltà le politiche criminali delle aziende a volte superando il sindacato stesso.
Allo stesso modo tanti occupanti di casa e sfrattati fanno fatica a comprendere l’agenda di movimento, soprattutto quando manca quel sentire comune che permette di agire come forza collettiva e non come atomi disgregati. E’ anche successo che si chiedesse una moratoria degli spazi sociali e non degli sfratti e degli sgomberi palesando di fatto una separazione tra un ambito di lotta e uno spazio di auto-riproduzione. Quando questa separazione invece si riduce, la contaminazione e l’amicizia creata nella lotta permettono lo svilupparsi di tutt’altre prospettive.
E poi ci sono i sindacati protesi più ai numeri degli iscritti che alla potenza collettiva, più alla vertenza che a preservare l’autonomia conquistata. Accordi su accordi, giochi di potere interni e una competizione infinita tra sigle ci descrivono un panorama sindacale disgregato e incapace di creare avanzamento al di fuori della rappresentanza e dell’auto-celebrazione.
Detto ciò, tutti i settori si trovano a dover subire forti attacchi da parte del governo intenzionato ad eliminare ogni forma di dissenso che metta in pericolo gli interessi e gli affari del partito della nazione. Davanti a questi attacchi non c’è un movimento di studenti, operai, migranti, occupanti, sindacati o assemblee di quartiere che si mobilitano compatte, così come non c’era durante la riforma del lavoro, della scuola e delle pensioni.
Gli errori sono normali. Nessuno ha la già una ricetta pronta a meno di non essere abbastanza umili o sinceri con sé stessi. Fraintendimenti e scazzi, se si è nell’ottica di una potenza collettiva, andrebbero risolti nelle sedi adeguate lontane dagli occhi dei nostri nemici, a costo di pigliarci a sediate e di creare rotture, per avanzare nelle possibilità rivoluzionarie che sono in gioco, non guardando alle nostre identità politiche, ai nostri calcoli e ai nostri egoismi.
Il non-movimento invece può permettersi di prescindere da necessità etiche e strategiche, non ponendosi il problema della solidarietà davanti alla repressione, perché la solidarietà si dà solo ai propri amici, anche se di mezzo ci va l’agibilità di tutti (e la vita di alcuni). Forse allora il problema non è il movimento, ma la sua assenza. Bisogna ripartire da questo vuoto e questa assenza, rimettendosi in discussione e sciogliendosi nel movimento reale, quello che può abolire per davvero lo stato di cose presenti. Per questo è fondamentale stare in mezzo alle contraddizioni per capirle e superarle. I rivoluzionari oggi devono avere la capacità di trovarsi nel luogo giusto al momento giusto.
Abbiamo bisogno di comunità di quartiere, di gruppi di studenti, di lavoratori combattivi, di migranti in lotta: forme collettive reali che si pongono la questione dell’auto-organizzarsi, la questione della vita a partire dalla lotta che portano avanti. Quello che non serve più sono i contenitori politici, sigle vuote ed esclusivamente rappresentative, i centri sociali che rappresentano se stessi e che al massimo soffocano le istanze politiche in dinamiche identitarie parrocchiali, i maestri di radicalismo tutti tesi a seguire le proprie pulsioni soggettive.
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Dicotomia movimenti-istituzioni, forza popolare-governo.

Torniamo indietro di 5 anni, a Milano, quando Pisapia era l’anti Moratti, la nuova speranza per la sinistra cittadina. Quando il movimento milanese era diviso tra chi non ne voleva sapere niente della politica istituzionale e chi invece era in attesa di quella “vittoria” che mettesse fuori gioco la destra che da anni governava Milano. Qualcuno la poteva chiamare ai tempi strategia, ma il problema è sempre la stessa modalità ambigua e confusa di confondere il patrimonio delle lotte dal basso con ciò che si decide nei piani superiori, come se Pisapia fosse stato il risultato di anni di lotte che in quel momento si stessero ponendo la questione della rappresentanza e del governo. C’è chi crede in questo percorso politico e prende ispirazione cercando ridicolamente di replicare in Italia le esperienze dei governi di sinistra dell’America Latina o di Siryza in Grecia o di Podemos in Spagna.
L’appartenenza ai residui di un’ideologia, più che la ricerca di pratiche rivoluzionarie e emancipatrici ha fatto in modo che tanti non riuscissero a vedere i limiti di questi modelli. Abbiamo visto in America Latina la distanza che si è venuta a creare negli anni tra la classe dirigente e la base militante, il tradimento dei governi nei confronti dei movimenti indigeni e sociali. Perché in mancanza di idee su come creare un mondo nuovo, di cosa farcene della potenza e della forza materiale autonoma accumulata nei territori, la questione del governo prende sempre il posto della rivoluzione e in Latino America a parte le esperienze collettive di riappropriazione, di autogoverno e autogestione dei territori dei vari movimenti indigeni, rurali e urbani, dai piani alti non si è mai vista nessuna proposta che mettesse in discussione il modello neo liberalista di sviluppo capitalista. La politica dell’estrattivismo petrolifero e minerario e dello sfruttamento delle risorse naturali è ancora oggi il modello di vita che i governi progressisti propongono come alternativa al mondo vecchio. In nome dello sviluppo la “Pachamama” [1] è stata violentata e calpestata nonostante fosse il pilastro delle nuove costituzioni andine e chi ha osato sfidare i governi per difenderla è stato duramente represso e in alcuni casi accusato addirittura di terrorismo.
La stessa cosa l’abbiamo vista in Grecia dopo la vittoria di Tsipras, una dirigenza politica che addirittura butta nell’immondizia la forza di un “No” collettivo per cedere ai poteri forti, dopo aver pacificato e frammentato quella forza che si era creata nelle lotte, nelle piazze, nelle fabbriche, nelle università, nelle scuole e nei quartieri della Grecia con la scusa del cambiamento. Ora qualcuno vorrà aspettare di vedere cosa combina Podemos. Ma forse qui non si tratta di tradimento. E’ necessario capire effettivamente di cosa parliamo quando diciamo “sinistra”. Cominciamo a considerare come la politica, nell’accezione moderna, designi sostanzialmente un ambito di gestione di un sistema economico e sociale inamovibile. Il capitalismo ha da un lato le sue strutture economiche (lavoro, valore, merce, denaro) e dall’altro ciò che è necessario al suo funzionamento e ad una riproduzione dinamica (governo, diritto, esercito, polizia), che nell’accezione comune si chiama politica. L’idea di sinistra per quanto voglia attaccare il capitalismo non rompe mai questo schema. Cerca spasmodicamente una gestione “alternativa” di un sistema del quale non mette in questione le fondamenta. Non vuole rompere con il lavoro salariato, il mondo della merce, del valore o del denaro, con il Mercato, il Partito o lo Stato, che spaccia come “orizzonti insuperabili” (quando dovremmo ricordarci che esistono da non più di qualche secolo).
Forse il problema è qui, ogni volta che sono scoppiate delle rivolte incontrollabili in giro per il mondo, la rappresentanza ha aperto la strada alla pace sociale e ha disgregato in mille particelle quella rabbia e quella massa di persone che erano state capaci di mettere in questione un intero modo di vivere. Con il voto si smette di pensare collettivamente come si fa quando bisogna organizzare un’assemblea, uno sciopero, una barricata, un’azione e torniamo ad essere individui soli. Si elimina un tiranno e si invita i rivoltosi a tornare a casa davanti alla TV per poi andare alle urne a votare il prossimo politico , la nuova maschera sopra il vecchio cadavere.
E’ la lotta a permettere ciò che prima sembrava impossibile, il buttarsi nelle contraddizioni, il lavoro di base quotidiano, quel lavoro che crea teoria, immaginario e apre delle possibilità. La potenza cresce quando smettiamo di essere spettatori del nostro destino e decidiamo di essere protagonisti. La catastrofe si trasforma in possibilità quando si trova un contatto con il mondo, quando ci accorgiamo di non essere soli e che il cambiamento può partire solo da ciò che dal basso riusciamo a costruire per rovesciare il mondo di sopra.
Quindi la domanda è: ci interessa costruire dei territori in grado di organizzarsi e autogovernarsi o avere dei territori da governare? Ci interessa porci il problema di come creare forme di vita rivoluzionarie o elettori disposti a salire sul carrozzone della speranza? Vogliamo forse una Repubblica socialista, un Capitalismo verde o di Stato, un auto-sfruttamento gestito collettivamente? O cerchiamo piuttosto un auto-organizzazione delle nostre vite, uno sviluppo autonomo dei nostri mondi?

Milano tra promesse tradite e rappresentanza borghese.

Dove sono rimaste le promesse della giunta arancione e quanto il movimento è stato rallentato da chi aveva i piedi in due scarpe? Abbiamo visto la politica sociale dell’alternativa al PD a Palazzo Marino. Il conto degli spazi sociali sgomberati lo abbiamo perso, gli sfratti e gli sgomberi di famiglie sono aumentati. Nella memoria collettiva rimarrà impresso quel tentativo di sgomberare 200 famiglie in nome di Expo nel novembre del 2014 e lo vediamo oggi con il piano regionale che smantellerà definitivamente l’edilizia pubblica o con i piani di intervento nelle periferie.
Un esempio della confusione che regna sono i piani speculativi che il governo cittadino e regionale hanno sul quartiere Giambellino. Rappresentanti di associazioni e di progetti finanziati dalle istituzioni (e quindi ricattabili) che siedono a tavoli con rappresentanti del governo locale e prendono decisioni al posto degli abitanti del quartiere. Associazioni e personaggi con i piedi in due scarpe che arrivano a fare patti con Renzo Piano spacciandoli per riqualificazione partecipata e dal basso.
Nella storia i movimenti si sono posti sempre il problema del rapporto con le istituzioni e con i governi. Quando si picchetta davanti a una fabbrica lo si fa per ottenere degli obiettivi che a volte passano per dei tavoli di trattativa, lo stesso fanno a volte i movimenti di lotta per la casa, ma ciò ha senso se si punta sempre a mettere davanti il rapporto di forza e a preservare l’autonomia conquistata con la lotta. Quell’autonomia che distingue i politicanti da chi lotta per costruire mondi nuovi e non per essere riconosciuti e assorbiti dal mondo vecchio. Come se le istituzioni a priori fossero amiche delle lotte.
Gli ultimi si devono auto-organizzare, il mondo di sotto deve tornare a fare tremare questa città e questo paese. Solo questo potrebbe cambiare i rapporti di forza attuali e porre fine alla borghesia dei ceti politici di sinistra e di movimento, ma soprattutto al modo coloniale di vedere la lotta e la rivoluzione. Il mondo vecchio non può essere riformato, la nostra sfida riguarda la secessione verso ciò che fu e la scoperta di ciò che può e deve essere. Chi non ha paura di perdere qualcosa perché non ha niente, chi non pensa a un domani perché un presente non ce l’ha, chi il problema della violenza non se lo pone perché la violenza la subisce tutti i giorni, ecco chi fa paura alla borghesia.

ROMPERE CON L’ESISTENTE, ABITARE LE ROTTURE.

I tempi che stiamo vivendo ci parlano chiaro: è finito il tempo delle mediazioni, il potere vuole chiudere ogni spazio di agibilità che abbiamo conquistato. Tanto si è detto sul significato e la declinazione della parola conflitto. Si può chiamare conflitto un corteo in cui si manifesta senza scontri, una Street parade, il lanciare delle uova, l’occupare una sede. O per conflitto si può intendere lo scontro con la polizia, i picchetti davanti alle fabbriche, il gesto di occupare una casa. In realtà è poco interessante il dibattito sulla pratica più o meno rivoluzionaria, il vero nodo è se ciò che mettiamo in campo agisce in termini di rottura con l’esistente e i suoi poteri o serve a perpetuare un’auto-narrazione dentro agli stessi meccanismi di sfruttamento. Esistono fattori come il rapporto tra le forze in campo, la percezione nel e del territorio, la puntualità nel dibattito che ovviamente influiscono sulla recezione collettiva di un’azione o un gesto, sul sentirsi parte di qualcosa. Ciò che oggi è possibile molto probabilmente prima non lo era, così come ciò che ora non è assumibile domani lo potrà essere, se sarà cresciuta l’intensità delle lotte. Perché ciò che è in questione sono quei gesti che ci fanno passare alla tappa successiva, con i quali tutti assieme superiamo paure e incrostazioni del passato
La differenza sta negli obiettivi, nella strategia. Se lottiamo per colmare i vuoti dello stato e non per esplicitare la vita che vorremmo la rottura non può avvenire e per quanto ci possa essere lo scontro e anche la vittoria, questa tante volte sacrifica l’autonomia e l’organizzazione che si è stati in grado di mettere in campo. I nostri nemici quando concedono qualcosa lo fanno per evitare il peggio, per fare calmare le acque in vista della prossima mossa. Le istituzioni sanno mettere in campo una strategia che mira a recuperare consensi, a dividere i buoni dai cattivi e a eliminare i processi di auto-organizzazione che nascono.
Poi c’è il nodo del consenso, su cui si fa sempre appello quando si vuole nascondere la propria debolezza o vigliaccheria. Il consenso serve, i nostri gesti devono essere raggiungibili, desiderabili, la gente deve avere voglia di fare lo stesso, di venire con noi. Il problema è quale consenso ci interessa, quello della borghesia o quello dei proletari? Il consenso che ci interessa è quello delle persone con cui costruiamo o potremo costruire giorno dopo giorno un’idea diversa di gioia/felicità. Nessuno si è mai chiesto quale fosse l’opinione della gente dei quartieri dopo gli scontri del Primo Maggio milanese, tutte le valutazione partivano dall’opinione “politica” di chi era stato colpito a livello materiale o morale, il racconto del giorno dopo rifletteva il modo di vedere e pensare della borghesia milanese preoccupata di difendere i propri privilegi o del cittadino medio legalitario e perbenista. Allo stesso modo la discussione in rete che è avvenuta (l’unica che c’è stata) è stata influenzata dal racconto maggioritario, di chi ha in mano il monopolio dei mezzi di comunicazione. Cosa ne pensavano gli abitanti del Giambellino, di Corvetto, di San Siro, di Quart’Oggiaro, di Cimiano, di Barona, del Ticinese o degli altri quartieri popolari, vedi occupazioni, in giro per l’Italia? Nelle discussioni a voce in periferia i termini del discorso erano meno imbarazzanti di quelli ufficiali, sia del nostro non-movimento, sia del potere. Qualunque sia il giudizio su ciò che è successo, quando i compagni parlano come parla il potere, bisogna preoccuparsi.
Quando difendiamo uno sfratto, quando picchettiamo davanti ai cancelli di una fabbrica, quando facciamo i collettivi a scuola l’obiettivo non è semplicemente l’affermare una mancanza o una ingiustizia ma affermare una possibilità, ricompattare un sentire e una presenza in termini collettivi e conflittuali. Fare la lotta agli sfratti senza occupare una casa, vincere una vertenza sindacale senza cambiare i rapporti di forza dentro il magazzino, chiedere la libertà di movimento dei migranti senza farsi carico dell’illegalità che comporta il rendere reale la solidarietà, limitarsi a fare appello alla scuola e all’università pubblica senza interrogarsi sul modello di istruzione che ci interessa, sono tanti modi di mantenere e migliorare lo stato di cose presenti e non di rompere con i processi e i meccanismi di pacificazione e di riproduzione sociale che impediscono lo svilupparsi dei divenire e dei possibili rivoluzionari.
Una strategia rivoluzionaria si deve scontrare di continuo con ogni ostacolo le si presenti davanti, per aprire nuovi possibili deve essere in grado di farla finita con gli automatismi, l’auto-rappresentanza. Deve sviluppare processi organizzativi in grado di mettere in difficoltà la controparte, farle paura, rendere difficile il suo lavoro di mediazione politica. Dobbiamo tornare ad essere imprevedibili.
Bisogna però essere in grado di abitare gli spazi che si aprono con le rotture, essere in grado di riempire i vuoti che si creano, di creare proposta politica in grado di superare ciò con cui si è rotto. Se questo non avviene, le rotture vengono abitate e gli spazi vengono chiusi dal potere che si ristruttura, che cambia forma, che rovescia a suo favore la rottura, riassorbendo tutta la potenza che non è riuscita a dispiegarsi. Uno dei problemi e degli errori più grandi di chi oggi agisce in termini conflittuali è l’incapacità di abitare le rotture che si producono, perché i limiti del conflitto vengono a galla quando non si ha la capacità di leggere i cambiamenti, di fare nascere qualcosa in grado di seppellire ciò che c’era prima. Se questo non avviene, il conflitto e la rottura rimangono immortalati e chiusi in una giornata, in poche ore, e non si dispiegano nel territorio, nell’immaginario collettivo. Se non si riescono ad abitare le rotture si finisce indirettamente per mantenere intatto lo stato di cose presenti. I compagni zapatisti ci suggeriscono: “Sapete? Uno degli inganni di chi sta sopra è convincere quelli in basso che quello che non si ottiene rapidamente e facilmente non si otterrà mai; convincerci che le lotte lunghe e difficili stancano e non arrivano a niente. Truccano il calendario del basso sovrapponendo il calendario di sopra: elezioni, apparizione, riunioni, appuntamenti con la storia, date commemorative che occultano solo il dolore e la rabbia.”
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IL CORAGGIO DEI MIGRANTI, UNA NUOVA LOTTA DI CLASSE.

Se pensiamo alla risposta che i movimenti stanno mettendo in campo davanti agli attacchi del governo il morale scende subito. L’ultima volta che si sono visti gli studenti incazzati era nel 2010 ma quella mobilitazione fu cavalcata dal “Partito di Repubblica”, intenzionato a far cadere Berlusconi. E’ più facile ricordare l’ultimo comizio della Camusso che il conflitto operaio in piazza. Se 40 anni fa qualcuno avesse descritto la situazione attuale sarebbe stato preso per pazzo.
Le piazze sono vuote, come vuota è la politica e l’interesse generale per ciò che ci accade intorno. La televisione e gli smartphones insieme a trent’anni di contro-insurrezione hanno distrutto ogni comunità e senso d’appartenenza e prosciugato il mare in cui i movimenti nuotavano. Attraverso un uso strategico della scuola, della fabbrica e del quotidiano, il potere ha costruito, orientato e addomesticato le proprie soggettività impedendo di fatto la possibilità di prendere parte al mondo se non come soggetti disgregati, privi di relazioni sociali reali e collettive.
E’ da qui che partiamo, e senza ritrovare affluenti in grado di impedire al fiume della rivoluzione di prosciugarsi definitivamente saremo dei pesci fuori acqua destinati a una dura e triste sconfitta.
La parola guerra è tornata a far paura negli ultimi 15 anni. Con la scusa della guerra al terrorismo si bombardano e saccheggiano intere zone del pianeta. Allo stesso tempo l’Italia ha visto aumentare l’ingresso di persone provenienti da ogni dove negli ultimi anni. All’inizio i padroni si leccavano i baffi, mano d’opera a basso costo e un nemico interno da esporre per nascondere malaffari, corruzione e giochi di potere.
Ora la situazione è distinta, perché la guerra in Medio Oriente ha scatenato una diaspora verso l’Europa che nessun paese è in grado di sostenere a livello economico e politico. I flussi migratori continuano ad aumentare e nonostante “gli sforzi” dell’occidente per tenere lontani i “barbari” nei prossimi mesi e anni i profughi da non-soggetti, ignorati, lasciati a morire di fame, potrebbero diventare i protagonisti della messa in discussione del modello Europeo e occidentale.
Il profugo è un soggetto creato dal potere coloniale, quando emigra si porta dietro questo ruolo, sia nella sofferenza e nel sacrificio del viaggio, sia nella richiesta di accoglienza. Forse è proprio quando le condizioni materiali che lui si aspetta di trovare vengono tradite che si mette a lottare. Sicuramente su queste persone giocano meno le convinzioni morali che frenano gli italiani, come la legalità, la violenza, la disciplina del lavoro. Forse sarebbero gli unici in grado di fare realmente in occidente la guerra alla guerra.
Chi scappa dalle guerre, dalla povertà e dalla fame, chi lavora in condizioni al limite dello schiavismo non ha niente da perdere e la rassegnazione è l’unica cosa che queste persone hanno dimenticato cosa sia. E’ per questo che i magazzini di mezza Italia scioperano sommersi da mille lingue e dalla determinazione e il coraggio di tanti operai quasi tutti stranieri. E’ per questo che i movimenti di lotta per la casa sono composti maggiormente da migranti. E’ per questo che Ventimiglia e la lotta alle frontiere fa paura al potere, perché non si parla più soltanto di diritti, di documenti, ma di libertà di circolazione, di vita, e si lotta per tutto questo.
Una nuova guerra di classe si combatte sulla pelle dei migranti, chi non ha subito la sconfitta degli anni 70 , 80 e 90, chi ha rischiato la vita lasciando affetti e sogni per cercare di costruirsi un futuro migliore è meno propenso ad abbassare la testa. Di questo magistrati, poliziotti e politici hanno paura, perciò cercano di ricattare i migranti attraverso mille procedure prima di arrivare alla regolarizzazione vera e propria. Arrivare ad essere un cittadino Italiano per un migrante vuol dire sopravvivere ad anni di sfruttamento e percorsi a ostacoli. La cittadinanza stessa è poi posta sotto ricatto: può sempre essere revocata se viene ritenuto che la condotta mette in discussione la sicurezza dello Stato. Un recinto disposto ad inculcare la rassegnazione. Anche per questo le frontiere sono tornate. Per questo bisogna lottare al fianco dei migranti, imparando da ogni comunità, mettendo a disposizioni mezzi e saperi, contaminandosi a vicenda, distruggendo definitivamente ogni visione coloniale della lotta.
Essere presenti dove le lotte dei migranti nascono, fare inchiesta per capire e imparare dalle comunità straniere, studiare i bisogni, creare incontri, sviluppare solidarietà, intrecciare mondi e culture, contaminare e lasciarsi contaminare.
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SENZA SINISTRA ALLA RICERCA DI MONDI NUOVI

Non è il dibattito intorno a sterili giochi elettorali ad interessarci, bensì la riflessione ed il confronto intorno ai territori che viviamo, i percorsi che scegliamo di intraprendere, le nostre difficoltà ed i punti di forza. E’ questo il dibattito che ci dovrebbe interessare e che va costruito partendo dal vuoto e dalle difficoltà materiali che ci troviamo ad affrontare nel presente.
Il panorama politico mondiale è sconvolto da guerre e dalla violenza del capitalismo, ma in tanti posti del mondo il problema della costruzione di infrastrutture partigiane, di forza popolare, di comunità, di autonomia, di autogoverno e di forme di vita come nel Rojava e nelle comunità zapatiste è pratica quotidiana. Allo stesso modo ci sono tante comunità indigene del Sudamerica che, dopo il tradimento di quella sinistra che hanno portato al potere, ora ricominciano ad organizzarsi e a coordinarsi anche con i movimenti sociali metropolitani, così come le esperienze di auto-organizzazione delle periferie di tante metropoli del “continente perdido”, e anche forme di comunità in Messico che combattono quotidianamente contro il narcotraffico creando delle vere e proprie zone di autogoverno autodifese. I nostri modelli vanno cercati nelle pratiche resistenti del ventunesimo secolo.
Il dibattito sulla forza materiale autonoma va rilanciato perché a livello strategico è qualcosa di fondamentale. La costruzione di comunità solidali non è qualcosa di scontato, è qualcosa su cui bisogna scrivere, creare momenti di discussione. A Bologna durante un anno di occupazione dell’ex Telecom decine di famiglie mettevano in comune, per risolverli insieme, problemi quotidiani che solitamente rimangono confinati alle quattro mura domestiche: come iscrivere i figli all’asilo o come ottenere la tessera sanitaria. Perché è questa la base per qualsiasi possibilità di discorso politico. Senza comunità, senza relazioni, senza un sentire comune la politica rimane ai margini, al di fuori della riproduzione della vita di chi abita in un determinato luogo. Forzare questo vuoto, le condizioni sfavorevoli, fare parte della vita che in un territorio si sviluppa, ecco il nostro compito.
Come costruiamo qui e ora una forza in grado di creare autonomia, potenza popolare e solidarietà, come diffondiamo mondi nuovi in ogni angolo delle penisola? Come teniamo lontani gli sciacalli, gli sbirri, gli speculatori, i politici facendo parte di un tessuto sociale reale e non di un ceto politico? Come ci posizioniamo dentro l’attuale scontro di classe? Cominciamo a riflettere sulla nostra incapacità di organizzarci, saccheggiamo tutto ciò che si muove in giro per il mondo, riscoprendo la curiosità e complicità per lotte ed esperienze geograficamente lontane da noi, una curiosità che abbiamo perso negli anni.
Passo dopo passo, granello di sabbia dopo granello di sabbia, sarà un processo lento e lungo, ma bisogna cominciare perché questo è molto meglio che vivere aggrappati ai cadaveri degli Iglesias , dei Tsipras, dei Correa, dei Morales e dei Pisapia di turno e buttare via sogni e desideri alla ricerca eterna di una “Nuova Sinistra” che meno male non tornerà mai più.
Vogliamo abolire la “politica” solo per poterla realizzare. Vogliamo abolirla come sfera separata dalla vita quotidiana. Vogliamo costruire un autonomia che afferma la sua pratica e la sua etica. Dobbiamo rinunciare ad una concezione del politico fondata sulla potenza di entità astratte e unificanti e abitare nella molteplicità concreta degli spazi e dei momenti, ridando alla politica le sue proprietà originarie: un tempo, un luogo, degli esseri, una vita che si fa e si disfa al presente.
Compagni e compagne per l’autonomia diffusa autonomiadiffusa@inventati.org
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[1] Pachamama o Mama Pacha, è la Dea Terra dei popoli andini del Sudamerica, tuttora venerata dalle genti che ancor ‘oggi si riconoscono nella cultura Inca.

RADICAL MIGRANT SOLIDARITY [ITA – 2/4]

Parte 2 – I CONFINI TRA NOI

Le aree di frontiera come Calais o Ventimiglia, sono caratterizzate da una grande concentrazione di migranti, di mafiosi e di trafficanti e da un’intensa attività di polizia. I loro marcatori geografici sono porti o frontiere di terra, campi occupati e centri di detenzione. Sono incroci chiave dei percorsi di migrazione e delle vie del contrabbando, e perciò sono già stati al centro di percorsi di lavoro solidale.

Quando CSM ha iniziato a lavorare a Calais, nell’estate del 2009, il numero di migranti in città aveva raggiunto il suo picco, e gli ostacoli al lavoro di cooperazione erano più impegnativi. Allora circa 2.000 persone vivevano in campi occupati al, con più di 800 afgani in uno solo di questi. Il numero di bambini e adolescenti era elevato: quasi la metà dei 279 arrestati durante lo sgombero del campo afgano, a settembre, erano minori non accompagnati.

Il governo britannico stava delegando la guerra contro i sans-papiers – che si è manifestata nella continua persecuzione dei migranti, che prosegue ancora oggi – affidandola ai reparti di PAF e CRS.

Lo Stato francese dichiarò la sua intenzione di rendere l’area ‘migrant-free‘ entro la fine del 2009, il progetto venne realizzato nella forma di ripetuti arresti e della distruzione di campi e case occupate. Fu in questo contesto che gli attivisti No Borders si sono presentati ai migranti, hanno spiegato il loro intenzioni, e hanno tentato di superare le diffidenze.

Supponendo di lavorare sulla base dei principi precedentemente descritti, e di avere una comprensione relativamente buona della situazione in cui siamo coinvolti, rimangono tuttavia un certo numero di altri potenziali ostacoli nel lavoro con i migranti privi di documenti.

Ne analizziamo quattro che abbiamo incontrato a Calais.

Fiducia

Poichè la sfiducia può essere un meccanismo chiave di sopravvivenza per i sans-papiers, è molto importante evitare di fare domande inutili. Si può essere tentati di farlo, soprattutto se siete nuovi a un posto e vi sentite nervosi o a disagio. Non solo è irrispettoso, ma rischia di farti apparire ai loro occhi come un poliziotto.

A Calais, conquistare la fiducia dei migranti è stato il problema più grande e più ricorrente all’inizio del nostro percorso, per una serie di ragioni.

Come accennato in precedenza, al tempo c’era un numero maggiore di migranti nella zona, e la maggior parte di loro erano giovani uomini afghani che parlavano poco inglese. Questi ostacoli linguistici hanno reso difficile la comunicazione e ci sono voluti diversi mesi per sviluppare relazioni individuali. In più c’era la nostra inesperienza, la popolazione in continuo cambiamento, e il fatto che

il campo Pashtun (afgano) campo era sotto il controllo della mafia, la quale diffondeva spesso false notizie e voci negative su di noi.

E’ importante comprendere il contesto in cui sorgono questi tipi di problemi per raggiungere un rapporto di fiducia e godere di buona reputazione tra i migranti. Dobbiamo sempre supporre c’è accadono molte più cose di quante riusciamo a controllarne, e accettare che non abbiamo bisogno di sapere tutto. Consigliare alle persone di non rivelare più informazioni del necessario può essere anche un modo rapido per costruire fiducia.

Oltre alla curiosità eccessiva, un altra cosa che aumenta la sfiducia nei vostri confronti è l’utilizzo di apparecchi per foto e video in presenza di migranti, che potrebbero scambiarvi per giornalisti. A Calais usiamo le telecamere solo per monitorare la polizia, e questo è chiaramente spiegato ai migranti. Fotografare i migranti irregolari, soprattutto quando vivono per le strade, è un’altro degli atteggiamenti che aggravano una situazione già di per sè debilitante. Molti simpatizzanti sembrano non capirlo e gli attivisti non dovrebbero esitare a spiegare perché è inadeguato fotografare o filmare persone.

Allo stesso modo, non lavoriamo pubblicamente con i giornalisti a Calais, neanche con quelli amici, perché consideriamo troppo elevato il rischio per le nostre relazioni. Giornalisti, ricercatori e fotografi spesso cercano di usare noi come intermediari, ci chiedono di presentare loro i migranti, e dobbiamo spesso lottare con loro per chiarire quando i migranti non vogliono essere intervistati, fotografati, o filmati.

Nel particolare contesto del lavoro con i rifugiati, abbiamo scoperto che l’associazione con fotografi tende a non essere compatibile con il nostro attivismo. A meno che i migranti non abbiano espressamente chiesto l’attenzione dei media, le nostre ragioni per essere lì devono rimanere inequivocabilmente chiare alla popolazione in continua evoluzione.

Privilegio

Abbiamo bisogno non solo di riconoscere il nostro privilegio e sfruttarlo, ma di farlo in un modo che sfida le gerarchie esistenti. A volte, sarà dolorosamente evidente a tutti che vi è un enorme divario tra noi, anche se stiamo cercando di creare le condizioni per demolire le gerarchie.

E ‘difficile non sentirsi in colpa ad essere i soli, nel campo, a non dover fuggire dalla polizia, i soli a potersi ritirare in un posto sicuro per fare una doccia calda e bere una tazza di tè, quando ci sentiamo stanchi, i soli a poter infine tornare a casa quando ne abbiamo abbastanza.

Alcuni ritengono che la cosa moralmente giusta da fare sia mostrare solidarietà diretta restando sul campo con i migranti, dormire nelle giungle, mangiare lo stesso cibo, e così via. Questa è una parte importante del nostro lavoro a Calais, non possiamo dimenticare che è il fatto di avere questi privilegi rende possibile il nostro lavoro. Tuttavia, non sono solo gli attivisti sul campo a fare la differenza, ma anche quelli che organizzano benefit, raccolgono denaro e rifornimenti, e pubblicizzano la campagna organizzando serate di informazione. Anche se può dare la sensazione di non fare abbastanza, è comunque una parte importante del lavoro: non si può mantenere una presenza efficace a lungo termine senza un posto dove stare, o provare a rimediare alle carenze degli enti di beneficenza senza il denaro e i materiali raccolti dai compagni che lavorano a casa.

Non è possibile rinunciare al privilegio finchè si posseggono ancora uno o più dei tratti che ti rendono superiore ai migranti, agli occhi delle autorità. Quello che è importante è lottare per un mondo senza queste gerarchie … e se possiamo usare la nostra posizione per sovvertire particolari privilegi, allora perché non farlo?

Di tanto in tanto, le amicizie tra europei e migranti si sviluppano con enormi disuguaglianze pratiche che possono complicarsi, in particolare in termini di dipendenza. È naturale e meraviglioso non controllare le amicizie a Calais, ma è importante tenere alcune cose in mente. Prima o poi, attivisti e migranti, partiranno lasciandosi alle spalle amicizie e relazioni. E’ confortante l’idea che i nostri amici riescano ad attraversare il confine, ma una volta dall’altra parte non sarà facile mantenere i contatti.

Ma spesso dopo mesi di permanenza al campo sono ancora lì, depressi, disillusi, o forse anche risentiti della tua libertà. Quando arriva il momento di ripartire, ci sono domande inevitabili: “Tu sei libero, puoi venire qui ogni volta che vuoi – io non ho nulla, quindi perché non rimani qui con me?

Quando si tratta di persone vulnerabili, soprattutto se sono giovani, vale la pena pensare a quale effetto queste dipendenze possono avere. Se si può parlare la stessa lingua e discutere delle difficoltà della situazione è un conto, ma in luoghi come Calais è facile arrivare a conoscere persone abbastanza bene con solo poche parole in comune. Telefonarsi ogni pochi giorni è un modo di mantenere un rapporto di amicizia, ma resta la questione degli effetti di una crescente dipendenza se la persona non riesce ad attraversare il confine per mesi o anni.

Tutti i rapporti mutano, la comunicazione e le aspettative cambiano notevolmente, e possono nascere splendide amicizie. Ma portare ogni rapporto a questo livello può condurre a complicazioni. Anche se rispettare la vulnerabilità della persona non significa necessariamente sviluppare meno solidarietà reciproca o una relazione meno positiva, tuttavia, data la nostra posizione privilegiata, vi è più onere su di noi per quanto riguarda la comprensione e il rispetto delle esigenze di persone che vivono nella privazione e hanno subìto traumi.

E’ importante riconoscere il privilegio e valutare i suoi effetti sulle nostre relazioni, ma è anche inutile, semplicistico e ingenuo inserire in blocco i sans-papier in una singola classe di soggetti svantaggiati.

Inutile perché può indurre nei migranti un senso di vergogna per la propria condizione o atteggiamenti di deferenza verso gli europei in genere. Distinguere le persone esclusivamente secondo la scala dei privilegi ignora l’umanità di quelli con cui stiamo lavorando, e contribuisce a rafforzare le divisioni.


E’ anche ingenuo perché il privilegio esiste in varie forme, come i privilegi di genere o economici. I campi a Calais sono quasi esclusivamente di sesso maschile; in molte delle strutture sociali dei paesi di origine dei migranti le donne vengono generalmente lasciate indietro o sono incapaci di finanziare e organizzare il proprio viaggio. Le donne migranti sono quindi una netta minoranza nelle giungle, e corrono più rischi per le strade se vengono separate dai loro compagni maschi, come spesso avviene.

Inoltre molti migranti in transito in Europa sono relativamente benestanti nei loro paesi poiché questi viaggi costano migliaia di euro. Ci sono anche migranti ricchi che non possono ottenere un visto per altri motivi, come pure coloro che realizzano un profitto trafficando alla frontiera.

C’è un certo filone del discorso antirazzista militante, negli Stati Uniti in particolare, che suggerisce che tutti i bianchi siano intrinsecamente razzisti, e alcuni, come il collettivo Dissenso Europeo, sostengono addirittura che chi combatte il razzismo dovrebbe accettare una leadership nera. Questa retorica è controproducente e carica di liberalismo radicale e di politica della colpa. Il concetto di razzismo innato dei bianchi e il suggerimento che dovremmo accettare una gerarchia perché al vertice ci sono le minoranze più svantaggiate non solo rispecchia un atteggiamento condiscendente ma perpetua distinzioni sulla base del colore, così come il più ampio e più fondamentale problema della gerarchia stessa. Un’analisi così estrema non ha trovato molto riscontro tra i No Borders in Europa, abbiamo occasionalmente incontrato prospettive che compensavano il privilegio attraverso reticenza e inazione in modo da consentire ai migranti di prendere l’iniziativa. Non vi è nulla di male nel fare sforzi supplementari per lavorare in modo più inclusivo possibile, ma dobbiamo diffidare da qualsiasi approccio che esprima senso di colpa o che comporti di tenere per noi le nostre opinioni in cambio del privilegio. Noi siamo intenzionati a lavorare da pari, senza mai deferire agli individui sulla base della classe o etnia.

In definitiva, è importante rendersi conto che i migranti sono persone ordinarie in circostanze straordinarie, con il proprio bagaglio culturale o di altro tipo, e dobbiamo quindi essere cauti nel valorizzarli. Lavorare da pari a pari significa non parlare verso il basso alla gente, ma significa anche rifiutare i comportamenti irrispettosi. Se il rispetto non è ricambiato e lo portiamo avanti a prescindere, allora non siamo fedeli alle nostre convinzioni.

Ma dobbiamo anche essere cauti nel giudicare il comportamento secondo le nostre norme culturali. Per esempio, mentre il pregiudizio è normalmente diffuso anche tra i migranti, i sospetti, le antiche ostilità e le tensioni etniche non si sviluppano nel vuoto. Capita che gli unici incontri tra afgani e kurdi siano esperienze negative. Dallo sfruttamento mafioso alle rapine sulle strade di Iran e Turchia al sequestro di bambini afgani in transito per estorcere denaro ai loro genitori: queste esperienze non sono rare tra i migranti irregolari. Mentre è bene sfidare i pregiudizi, tutte le ostilità inter-etniche dovrebbero essere lette in questo contesto.

Differenze culturali

I confini possono essere melting pot pieni di opportunità di scambio interculturale. Questo rimane uno degli aspetti più belli e vitali del lavoro con i migranti.

Il rovescio della medaglia è che, mentre noi non ci aspettiamo di conformarci alle convenzioni culturali dei migranti quando viviamo nelle comunità, sarebbe ingenuo pensare che le persone non abbiano interiorizzato alcuno dei valori prevalenti nei loro paesi di origine.

Ciò significa che le attiviste di sesso femminile, in particolare, devono considerare le convenzioni presenti in questi paesi, ed evitare di indossare abiti succinti o abbracciare amici migranti pubblicamente, poiché sono segni che possono confondere. Per quanto ci piacerebbe vedere la fine simultanea dei controlli sull’immigrazione e del patriarcato, dobbiamo accettare questi compromessi se vogliamo seriamente impegnarci con i migranti in una lotta per la libertà di movimento.

Questo suggerimento è stato criticato da alcuni e indicato come sessista. Siamo d’accordo che si tratta di sessismo, ma questo è solo un riflesso di atteggiamenti prevalenti nella società, da cui i migranti non sono affatto magicamente immuni. Che alcune persone, a prescindere dal luogo da cui vengono, percepiscano un abbraccio come un approccio, è una realtà di vita che noi dobbiamo aggirare se vogliamo affrontare quello che è già un incredibilmente complesso e profondo problema, che non ha bisogno confusione aggiunta esclusivamente per fare appello alla sensibilità radicali degli attivisti.

Questo argomento solleva un’altra questione spinosa, che è quello della responsabilità verso gli altri membri delle nostre comunità. Coloro che scelgono di essere affettuosi e fisici con i migranti (amici e non) di fronte agli altri, devono prendere in considerazione le implicazioni su altri membri del gruppo. Ricordate di essere osservati da persone con una limitata conoscenza dell’Inglese e che si baseranno quasi esclusivamente sul vostro comportamento nel giudizio su di voi. Questo potrebbe influenzare la percezione del gruppo e mettere in ombra le ragioni della nostra presenza essere lì.

Questo non significa che dovremmo semplicemente accettare i comportamenti impropri. Anche se raramente, a Calais ci siamo occupati di un numero di casi di comportamenti o commenti sessuali inappropriati discutendone gli con gli autori in presenza di altri membri della loro comunità, spiegando chiaramente che cosa stiamo facendo a Calais e perché abbiamo sentito che il loro comportamento era irrispettoso. Altri migranti ci hanno sostenuto in questo.

E’ anche con l’esempio che si realizza il rispetto. Come detto, in circostanze difficili o disperate le persone possono essere più aperte a nuove idee, e molti dei No Borders impegnati a Calais sono donne. Anche una superficiale ricerca sui costumi dei paesi di origine può aiutare a capire il motivo per cui non dovremmo prevedere le stesse reazioni che ci aspetteremmo dagli europei. L’Afghanistan, per esempio, ha un sistema di rigorosa segregazione di genere, con le donne e gli uomini che non interagiscono al di fuori della famiglia.

Si può essere tentati di passare più tempo con le comunità con cui sentiamo maggiori elementi in comune, o maggiore vicinanza culturale. Poter condividere alcune birre con i migranti eritrei ed etiopi – a maggioranza cristiani – significa legare con loro più rapidamente che con alcuni dei migranti musulmani, a meno di non fare uno sforzo consapevole per avvicinarci ad altre comunità, nonostante sia richiesta una mole di lavoro maggiore.

E’ naturale essere inclini a trascorrere il tempo con coloro con i quali condividiamo degli interessi, ma dobbiamo stare attenti a non cadere nella trappola del favoritismo. Alcune comunità possono essere colpite più duramente di altri, o affrontare più difficili condizioni di vita; ed è questo che in definitiva dovrebbe orientare il flusso dei nostri sforzi. Dobbiamo lavorare per favorire legami tra le diverse comunità, se siamo determinati a superare i confini, anche se le consuetudini possono rendere ciò molto complicato.

Un’altra cosa importante è non dare inconsciamente la preferenza a quelli con più capacità di comunicare con noi.

Abbiamo registrato un numero di incidenti in cui l’interprete ha agito come portavoce. In tutte le occasioni tra i migranti si è diffusa la frustrazione, hanno criticato il loro traduttore o scelto qualcun altro, ma sono stati gravemente ostacolati nella loro capacità di comunicare a causa del loro numero e dei limiti di tempo.

Analogamente, lavorare con intermediari dovrebbe essere una scelta considerata con molta attenzione, tanto più che molti migranti non sono in realtà parte di una particolare comunità ma in possesso di qualche qualità che permette loro di diventare una sorta di portavoce.

L’importanza dell’onore e della vergogna in molte società mediorientali è spesso trascurata dagli operatori, che sono troppo distaccati da quelli con cui lavorano. Vale la pena ricordare che alcuni preferiscono rimanere senza cibo se trattati con mancanza di rispetto, come è stato illustrato durante il maleducato e condiscendente trattamento di migranti sudanesi da parte di un ente di beneficenza a Calais che ha portato a una breve boicottaggio del loro programma di distribuzione del cibo.

La cultura dell’onore è anche un altro motivo per cui un approccio basato sulla solidarietà può generare relazioni più forti e durature di uno fondato sulla carità. Vale la pena considerare che la nostra cultura agisce come una barriera potenziale al lavoro con i migranti. Per quanto abbia attrattiva e risonanza politica, la cultura DIY può essere estremamente esclusiva.

Siamo a conoscenza di un evento di solidarietà, progettato per attrarre circa duecento richiedenti asilo afghani, con birra e assordante musica punk. Non sorprende che solo un gruppetto fosse presente. Le donne in topless al campo No Borders di Calais sono un altro esempio, ed probabilmente anche un altro segno dell’imperialismo culturale.

Mafia

La mafia è generalmente ostile agli attivisti, in quanto ha bisogno di mantenere migranti in uno stato di dipendenza per ottenere profitto.

A Calais, dove abbiamo cercato di incoraggiare l’autonomia dei migranti, la mafia ci ha subito visto come una minaccia. Sfruttavano sfiducia e paure della gente così come i nostri ostacoli linguistici nel tentativo di danneggiare le relazioni. Ciò comprendeva la diffusione di voci secondo cui noi lavoravamo per la polizia, e che tutte le attiviste erano prostitute.

E’ facile bollare tutti i trafficanti come sfruttatori, e molti in effetti lo sono. Anche se questa è l’immagine prevalente spacciata dalla stampa aziendale, la situazione è molto più complessa, e dobbiamo accettare che ci siano un sacco di informazioni di cui non veniamo a conoscenza attraverso i media ufficiali.

In primo luogo, la linea di distinzione tra migranti e mafia è confusa e irregolare. La mafia gestisce un’economia sommersa ai cui le persone ricorrono quando rimangono alla frontiera troppo a lungo e a corto di soldi, dal momento che altre possibilità di guadagno vengono loro precluse. Rete di migranti e mafia significa che non c’è un gruppo di individui temuti e violenti, ma un assortimento di persone ordinarie e disperate con vari gradi di coinvolgimento.

In secondo luogo, i trafficanti hanno avuto un grande successo nel distorcere i confini politici e nel minare i controlli sull’immigrazione. Hanno esperienza e sono altamente organizzati in reti fluide, costantemente in evoluzione e sopravvissute ai tentativi dello Stato di respingere gli individui.

Con questo non vogliamo idealizzarli, ma cercare comprensione più approfondita di ciò che sono i contrabbandieri, e il loro ruolo fondamentale dell’immigrazione irregolare. Una volta che arrivano a conoscervi, probabilmente non vi vedranno più tanto come una minaccia. Perseveranza e attenzione a non assumere comportamenti che potrebbero far sospettare un vostro coinvolgimento con la stampa o con la polizia, faranno scomparire la maggior parte dei problemi con il tempo.

RADICAL MIGRANT SOLIDARITY [ITA 1/4]

Radical Migrant Solidarity [ITA]


Iniziative, osservazioni e idee dalla lotta contro il regime dei confini

[di Calais Migrant Solidarity / traduzione italiana di Rete No Borders Genova]

Prefazione

Questo testo è pensato come strumento teorico di base per il lavoro di solidarietà radicale con le comunità di migranti.

Anche se noi ci concentriamo sui temi specifici che sorgono lavorando con migranti senza documenti, i principi di base sui quali operiamo e alcune delle tattiche utilizzate, possono essere trasferite nel lavoro di solidarietà con altre comunità.

Qui esaminiamo il concetto di solidarietà, esploriamo potenziali ostacoli del lavoro con le comunità migranti, e suggeriamo strade da intraprendere per superarli. Inoltre consideriamo alcune delle sfide più significative incontrate dai migranti in Europa, suggeriamo approcci che gli attivisti possono avere per aiutare a risolverle, ed elenchiamo una serie di iniziative radicali da cui trarre ispirazione.

Questa teoria e queste pratiche derivano principalmente dalle esperienze con i migranti degli attivisti No Borders – UK, e di quelli di Calais che lavorano sotto la bandiera di Calais Migrant Solidarity (CMS). Anche se abbiamo incluso esempi di alcuni progetti significativi in altri luoghi d’Europa e d’oltremare, è necessario dichiarare che è stato impossibile menzionarne molti altri.

Speriamo che condividere queste informazioni renda più efficace il lavoro, in particolare con le comunità di migranti senza documenti, che la ripida curva di apprendimento che abbiamo sperimentato a Calais e in altri luoghi possa essere condivisa con quelli che sono nuovi a questo campo dell’attivismo.

Questo testo è dedicato a Marie-Noëlle, la prima attivista No Borders a Calais e un’ispirazione per infiniti altri. Tu hai avuto il coraggio di gridare nell’oscurità e di combattere da sola contro le forze dell’oppressione. Lo spirito della tua resistenza vive ancora.

 

Parte 1 – SOLIDARIETA’ IN TEORIA

 

Il movimento No Borders opera implicitamente sui principi anarchisti di libertà, uguaglianza e solidarietà reciproca. Queste sono le basi della nostra convinzione che le persone dovrebbero essere libere di migrare dove vogliono; che questa libertà si applica a tutti senza distinzione di razza o nazionalità; e che le persone dovrebbero bypassare lo stato per supportare direttamente coloro che non hanno questa libertà. Questa necessità è sempre pressante in vista della natura sempre più securitaria, sofisticata e letale dei controlli globali di confine: le economie industrializzate lottano per fortificare i loro paradisi di ricchezza in via di disintegrazione, e presentano una narrazione che strumentalizza i migranti per obiettivi politici sensibili.

La rete No Borders riconosce che la grande maggioranza della popolazione mondiale, noi compresi, è sfruttata e oppressa dal capitalismo e dallo Stato. E’ questo riconoscimento di una causa comune che permette a una cultura di solidarietà e aiuto reciproco di emergere.

Comunque, la carità – il contrario della solidarietà – non ha relazioni con questo riconoscimento di un interesse comune; essa serve a rinforzare le gerarchie e i privilegi e a conservare l’ordine socio-economico esistente. Gli enti di beneficienza operano solo negli ambiti che sono loro permessi dai governi e, nonostante siano i mezzi prevalenti di supportare le comunità oppresse, possono essere parte del problema in quanto legittimano le azioni dei governi che hanno generato inizialmente le crisi. I vincoli a loro posti dai governi possono facilmente diventare strumenti di oppressione se definiscono le necessità delle comunità oppresse in accordo con le politiche di stato, invece di lasciare che tali comunità articolino autonomamente le loro esperienze e volontà.

Per realizzare il cambiamento sociale, noi – quindi – non abbiamo altre opzioni che di lavorare insieme in solidarietà: nel creare relazioni di fiducia e rispetto, dove cerchiamo di sfidare i nostri privilegi e colmare l’abisso tra noi e “gli altri”.

Eppure, nonostante la nostra comunanza, nel contesto dell’immigrazione, riconosciamo anche le enormi differenze di privilegi tra quelli con e quelli senza documenti. Colore che possono impegnarsi in aperta resistenza e spesso farla franca, che possono muoversi nei sistemi legali e burocratici con relativa facilità, che parlano la lingua locale, che hanno la sicurezza data dalla ricchezza e dall’educazione. E quelli troppo in confidenza con i pericoli dati dal ribellarsi o dal prendersi i necessari rischi per la sopravvivenza; quelli segnati dalla guerra o dalla tortura, quelli che hanno abbandonato la speranza di una vita migliore, dopo anni di deportazioni da un paese e da un centro di detenzione a un altro.

Date le basi teoriche del movimento No Borders, e gli squilibri di potere che rimangono tra i migranti con e senza documenti, la via in cui operiamo è critica, per sovvertire questa dinamica e destabilizzare i legami che ci tengono separati. Dove possibile, ci sforziamo quindi di lavorare nel modello orizzontale della solidarietà piuttosto che nel modello verticale della carità.


Responsabilità

La solidarietà è un duplice processo. In primo luogo, significa affrontare il ruolo che inavvertitamente giochiamo nel perpetuare le diseguaglianze e impegnarsi in un modello di resistenza che provi a smantellare queste gerarchie. Purtroppo, un ethos capitalista può rovesciarsi sul nostro attivismo, così vediamo alcuni militanti lottare per superare il proprio ruolo di “fornitore di servizi” o latore di carità, mentre coloro con i quali stanno lavorando sono visti come passivi consumatori di supporto.

In secondo luogo, la solidarietà ci incoraggia a lavorare in cooperazione con le comunità oppresse. Possiamo, ad esempio, dover fare compromessi sulle nostre tattiche privilegiate per ottenere un cambiamento, se questo non contravviene ai nostri principi fondamentali.

Assumere o insistere su un’attitudine conflittuale con la polizia può ben sposarsi con le politiche anti-autoritarie radicali, ma questo è mettere al primo posto le esigenze di coloro con cui stiamo lavorando? E ‘una tattica che ha il suo posto, ma, come tutte le tattiche, non è opportuna per tutte le occasioni. Tenendo conto delle esigenze di solidarietà, dovremmo discutere quanto questo approccio sia accessibile a coloro che con precari status di immigrazione. Anche se a Calais le persone sono quasi universalmente soddisfatte della nostra resistenza alla polizia, ci deve essere una comprensione dei limiti dell’accettabile. A volte la sensibilità e il compromesso saranno necessari.

Insistere sempre in una posizione senza compromessi, lungi dall’essere hardcore e all’avanguardia, ha connotazioni di cultura imperialista e arrogante.

Questo non vuol dire che dovremmo dare sentenze di valore a favore dei migranti o sui metodi di azione che vogliono adottare; ma semplicemente che quando ci impegnamo in progetti congiunti che li riguardano, i migranti devono sempre essere consultati sugli approcci che teniamo, che le loro esigenze di uguali devono essere rispettata che essi possono avere molto più da perdere che quelli di noi in possesso di documenti.


Cooperazione

Nel caso particolare di solidarietà ai migranti, ciò dovrebbe tradursi in flessibilità e apertura mentale di ciò che significa resistenza, e in un riconoscimento di come il privilegio può inclinare la nostra comprensione di ciò.

Ad esempio, nelle democrazie liberali, molti attivisti sono caduti nello schema fisso di usare l’azione diretta non violenta in un tentativo, spesso vano, di appellarsi ai media mainstream, credendo che raccontare la storia pubblicamente farà alla fine crollare governi e aziende sotto la pressione dell’opinione pubblica. Questa valutazione errata della nostra capacità di influenzare la politica deriva in parte dal background relativamente privilegiato di molti attivisti.

Considerate questa strategia dal punto di vista, ad esempio, degli eritrei richiedenti asilo. Nel loro paese di origine, dove la stampa è fortemente imbavagliata e le manifestazioni pacifiche violentemente sedate, questa strategia non violenta orientata ai media non è semplicemente nella lista delle possibilità. Essi possono quindi vedere questo approccio con scetticismo, e con l’imperativo di rimanere invisibili alla vista del pubblico, molti resteranno nascosti dietro un velo di clandestinità, rendendo la protesta pubblica contro-intuitiva.

Ci sono naturalmente innumerevoli casi in cui i migranti sono scesi nelle strade in protesta – le manifestazioni di regolarizzazione dei sans-papiers a Parigi sono un buon esempio. Eppure, per i migranti in transito o quelli che sono andati a terra (have gone to ground??), la resistenza può assumere forme più sottili, come la sovversione attraverso tattiche di evasione; l’aiuto reciproco attraverso la condivisione di competenze, informazioni e risorse materiali, e strategie collettive di difesa.

Possiamo imparare molto da coloro che vivono nell’ombra, e dalla forza che essi ricavano dalle loro culture.

Gli attivisti a Calais, per esempio, sono stati colpiti dall’incredibile spirito, energia e solidarietà dimostrati da molti all’interno della comunità Pashtun, anche anche se alcuni non si conoscevano prima del loro arrivo in città. Il desiderio di cantare, ballare, scherzare e giocare nonostante le circostanze miserabili è incredibile.

Allo stesso modo, la grande ospitalità e generosità di coloro con così poco da offrire è confortante.

La solidarietà dimostrata dai migranti si presenta sotto le forme più varie: ci sono quelli che indeboliscono la mafia aiutandosi reciprocamente a passare il confine senza pagare, nonostante gli enormi rischi; gli adulti che si occupano di minori non accompagnati; quelli che danno l’allarme quando la polizia irrompe nei campi e, così facendo, attirano l’attenzione su di sé; e i campi dove gli sconosciuti che cercano rifugio sono benvenuti. Tutte queste sono cose dalle quali trarre ispirazione. Nonostante le condizioni create per distruggere i legami e dare adito a violenza e sfruttamento, molti ancora si sforzano di sostenere quelli in una situazione simile, indipendentemente dal fatto che siano noti a loro personalmente.

Attivisti CMS hanno affermato di aver avuto i loro pregiudizi circa l’attivismo intrapreso, e di aver dovuto ri-concettualizzare il termine attivista in riconoscimento degli anni che molti migranti hanno trascorso sovvertendo i confini e aiutandosi l’un l’altro di fronte all’oppressione dello Stato.

Come tale, crediamo di dover impegnare le nostre energie nel sostenere l’esistente movimento di resistenza, fornire strumenti per aiutare a resistere al controllo, essere trasparenti circa la nostra politica e le ragioni di questo lavoro.

Non solo è molto efficace, ma questo approccio è di gran lunga più responsabilizzante di lavorare in nome dei richiedenti asilo – ciò è fondamentale in vista della crescente natura de-responsabilizzante del sistema di asilo e di gestione dell’immigrazione. Trattare l’altro come pari favorisce anche un maggiore rispetto reciproco di un atteggiamento condiscendente come quello a volte mostrato da enti di beneficenza per rifugiati o, al contrario, di un approccio deferente che tratta i migranti puramente come vittime irreprensibili.


Lavorare come eguali

Come accennato, la carità comporta una divisione implicita tra i donatori e beneficiari di aiuti. Suggerisce un confine che i destinatari non devono attraversare, che li tiene nel loro ruolo di oggetti di filantropia e lascia incontrastato il nostro privilegio di benefattori. Le possibilità di trovare un terreno comune in tali circostanze sono scarse, per coloro che si dedicano a questo lavoro significa impostare se stessi ad una enorme distanza da quelli con cui si lavora. Sentire che stiamo facendo qualcosa, invece di niente, serve ad alleviare il senso di colpa – ma chi, oltre quelli con interesse a mantenere lo status quo potrebbe davvero essere contento di questa disposizione? La carità muove i nostri interessi uno contro l’altro, invece di dichiarare che abbiamo un interesse condiviso nel radicale cambiamento sociale.

Nonostante questo, alcune circostanze possono dar luogo a un conflitto tra il rimanere nelle retrovie consentendo ai migranti di prendere l’iniziativa, e la necessità di agire in modo responsabile e sicuro. Questo può accadere quando si lavora con i minori, o quando i migranti si mettono seriamente a rischio, come nel caso di scioperi della fame.

Questi presentano inevitabilmente grossi problemi per gli attivisti. In un caso nel quale sei Iraniani richiedenti asilo respinti sono stati 37 giorni senza cibo, c’è stata una grande tensione tra la volontà di convincerli a rompere lo sciopero una volta ottenuta la loro prima vittoria (un avvocato), e quella di voler rispettare le loro scelte. Questa situazione è stata aggravata da un’assenza di opzioni alternative da suggerire e, dato che si trattava di dissidenti fuggiti un paese infestato di polizia segreta, era ulteriormente aggravata da una paura di compromettere la fiducia che avevamo costruito, diventando troppo insistenti.

La sfida di trovare un equilibrio tra l’intervento e il rispetto dell’autonomia è ulteriormente complicata dal concetto di ‘impostazione dei legami’, che è costantemente sostenuto da enti di beneficenza e gruppi tradizionali per i diritti dei migranti.

L’idea che dobbiamo essere chiari su ciò che stiamo facendo, perché lo stiamo facendo, e cosa noi riteniamo essere un comportamento inaccettabile quando lo vediamo, è chiaramente sensibile; come lo è il prendersi una pausa se hai lavorato intensamente senza sosta.

Può anche essere poco saggio essere coinvolti in una relazione sessuale con qualcuno che ha appena vissuto un’esperienza particolarmente traumatica.

D’altra parte, è solo lo status di immigrazione sola che unisce i migranti senza documenti. Essi costituiscono un mix eclettico di esseri umani che hanno subito diverse esperienze, e non vi è alcuna ragione per cui il loro status giuridico dovrebbe determinare che tipo di rapporto si ha e quanto vicino si arriva a un dato individuo. In ambienti intensi ed emotivi come Calais o Ventimiglia, alcune relazioni sono inevitabilmente sorte tra migranti e attivisti, e sembra che abbiano avuto l’effetto di rafforzare i nostri legami.

Tuttavia, gli attivisti hanno bisogno di essere profondamente consapevoli della miriade di ragioni per le quali relazioni potrebbero svilupparsi. Oltre alla genuina attrazione, potrebbero essere innescate dal dolore (per parenti e partner morti o dispersi), da un senso irrazionale di soggezione nei confronti di coloro che mostrano gentilezza in un ambiente altrimenti ostile, dalla percezione che gli attivisti sono un passaporto dalla miseria, dalla giovane età di molti richiedenti asilo, dall’amtmosfera relativamente libera dell’Europa. Prendendo in considerazione questi fattori, gli attivisti devono essere prudenti su quale tipo di responsabilità e potere potrebbero avere su una persona e agire di conseguenza.

Un aspetto del “boundary setting” che dovrebbe essere eliminato del tutto è l’idea che non si possa essere amici con quelli con cui si lavora, in quanto sarebbero troppo fragili per gestire l’amicizia, troppo bisognosi, troppo emotivi…

Al contrario, a Calais abbiamo sempre considerato la maggioranza dei sans-papiers come compagni, e con gran parte di loro abbiamosviluppato amicizie più strette. E quando si assume ruolo di genitore surrogato per ragazzi adolescenti, queste emozioni si manifestano inevitabilmente. Semplicemente non è possibile fornire un sostegno significativo rimuovendo le emozioni.

Dal momento che l’attivismo di Calais è tutto dipendente dalla nostra capacità di comunicare con la popolazione migrante, e permettere alle loro idee di condizionare il nostro lavoro, sarebbe impossibile non sviluppare queste relazioni.

Il volontariato d’altra parte non ha necessariamente bisogno di coltivare la fiducia, dal momento che i volontari spesso prendono su di sé la decisione in risposta ad una crisi piuttosto che interfacciarsi con ‘gli utenti dei servizi’ per scoprire ciò che vogliono.


Un’agenda radicale

Forse è un’osservazione cinica, ma si dice spesso che nei tempi di crisi le persone siano più recettive verso le nuove idee, e più capaci di comportamenti estremi.

Dimostrazioni di mutuo sostegno in queste situazioni possono aprire nuove opportunità per atti creativi di gentilezza e generosità in un ciclo di reciprocità. Dobbiamo solo guardare lo spirito di aiuto reciproco mostrato dai manifestanti in piazza Tahrir durante la Rivoluzione egiziana, dopo aver recuperato lo spazio pubblico e acquisito la libertà di decidere delle proprie vite. Nonostante il clima di tensione, è stato ampiamente riportato che dei volontari regolarmente pulivano le strade dopo gli scontri, garantivano assistenza sanitaria ai manifestanti, distribuivano cibo gratuitamente. La forza dell’unità e la natura responsabilizzante della solidarietà sono fondamentali per la creazione di questo circolo virtuoso.

Esperienze collettive a pressione elevata ed emotivamente esigenti possono diventare anche momenti di relazione potenti e memorabili, che danno luogo a rapporti intensi, nati rapidamente. Ad esempio, le persone possono riversare le loro storie o mostrare livelli insoliti di apertura, qualcosa a cui possiamo rispondere solo con un pari livello di sincerità. Possiamo anche sperimentare difficoltà collettive – le misere condizioni di vita, le vessazioni della polizia, le aggressioni, gli arresti, le provocazioni – che favoriscono forti sentimenti di empatia e cameratismo.

E ‘stato bello per noi discutere di politica radicale con dissidenti sudanesi, iraniani, iracheni e curdi a Calais, o ascoltare migranti riferirsi a se stessi come “attivisti NoBorders”. La politica antiautoritaria ribolle costantemente sotto la superficie in molti di coloro che hanno subito la repressione in casa o che sono stati maltrattati in tutta Europa. Quando i governi sono responsabili della violenza che costringe i popoli a fuggire, e quando altri stati non riescono a offrire protezione, lo si ricorda quando le persone comuni intervengono, e le ragioni del loro agire hanno bisogno di essere chiarite.

lI lavoro di solidarietà concreta è quindi anche l’occasione per costruire movimenti più ampi e forti, necessari per realizzare il cambiamento a lungo termine richiesto per affrontare problemi come il controllo della migrazione alla radice.

Lo scambio di idee tra culture e lo sviluppo di resistenza intercomunitaria è fondamentale per il lavoro dei No Borders, ed è un area che richiede più approfondimento da parte dei radicali in genere. L’unico contatto che un richiedente asilo afgano può aver avuto con gli europei sono le incursioni NATO sulla loro casa o la macchina delle espulsioni UE. Demolire la percezione che tutti i popoli europei hanno gli stessi atteggiamenti imperialisti e sottolineare che i governi non rappresentano necessariamente la loro gente può contribuire a colmare il baratro che genera razzismo e conflitto.


Impegno

Infine, solidarietà significa impegno in obiettivi a lungo termine e responsabilità reciproca, perseveranza nel contrastare la cultura della lotta personale e nel costruire comunità resistenti. La mentalità individualista del consumatore può manifestarsi in attivismo attraverso il coinvolgimento passivo in campagne con poco desiderio di prendere l’iniziativa; o in ‘turismo attivista’, vale a dire, il breve consumo di un’esperienza spinti dal desiderio di autocompiacimento o dalla curiosità invece che da un impegno per il cambiamento sociale.

Abbiamo bisogno di impegno sia nei nostri obiettivi a lungo termine sia nelle singole campagne che mirano a raggiungerli. E’ dedicando il nostro tempo tanto al noioso lavoro di scrivania quanto all’azione adrenalinica che vedremo dei risultati concreti.

In sintesi, solidarietà significa lavorare insieme da eguali attraverso mezzi radicali per raggiungere obiettivi radicali. Non ci limitiamo a distribuire tende, aiutiamo a trovare edifici abbandonati; non serviamo semplicemente il cibo, mettiamo a disposizione attrezzature da cucina; non difendiamo i ‘loro’ squat, ma creiamo le condizioni per la difesa comune degli spazi condivisi.

La solidarietà è un’arma di Resistenza!

Sono passati dieci mesi da quel 12 giugno, da cui tutto è cominciato. Il confine di Ventimiglia, la protesta, gli scogli, la solidarietà internazionale e poi il presidio permanente: cento giorni di lotta insieme ai migranti, per abbattere questo confine disumano che nega la libertà e la vita.  Da allora tante cose sono cambiate, persone in movimento hanno stretto relazioni, organizzato collettivi, condiviso informazioni, idee, e diffuso una rete di supporto ai migranti e di lotta alle frontiere, che agisce dentro e fuori i confini europei.

E le migrazioni non si sono mai arrestate. L’inverno ha significato soltanto una riduzione del flusso nel mediterraneo, e dunque un accumulo di persone sulle coste del nord Africa, in attesa di imbarcarsi. La situazione in Libia è degenerata con la minaccia di interventi massicci da parte della Nato, non appena il clima lo ha permesso sono ricominciati i viaggi e gli sbarchi nelle isole.

Il 18 aprile quattro barconi con 400 migranti a bordo sono naufragati al largo della costa, si sono salvati in 29.

Quei fortunati che riescono a raggiungere, clandestinamente, il territorio europeo, vengono innanzitutto incarcerati in strutture detentive (i cosiddetti Hotspot) senza alcuna legittimità o legislazione, privati di ogni oggetto personale e di tutti i diritti umani, poi identificati, schedati, e lasciati ad aspettare.
Che cosa? Che una commissione decida sul loro futuro di individui. Se provengono da una zona di guerra ufficialmente riconosciuta, hanno diritto d’asilo. Se invece sono in fuga dalla fame, da una guerra civile non documentata, da una dittatura che li perseguita o semplicemente sono in cerca di un luogo in cui venga rispettata la libertà, vengono caricati su un aereo e rispediti la da dove sono venuti. Di solito si tratta di quei paesi dell’Africa centrale, a quattro-cinquemila chilometri dall’Italia, da cui sono fuggiti anni prima, iniziando un viaggio che conteneva tutte le speranze della loro vita.

Bruciare i Cie! Bruciare gli Hotspot! Ma dopo?
Chi riesce a evitare l’identificazione, perché non vuole rimanere in Italia (un posto sempre più simile alla Libia), ha di fronte a se soltanto una strada: fuggire, nascondersi, restando in clandestinità e tentare di attraversare uno dopo l’altro, gli assurdi confini interni di questa Europa, più prigione che fortezza.

Nel suo viaggio il migrante in fuga incontra sempre gli stessi personaggi: il poliziotto in divisa, il soldato, il volontario della croce rossa che gli offre poco cibo in cambio di una resa, il trafficante che promette un passaggio oltre la frontiera, il fascista che gli spezza due costole di notte mentre dorme in stazione, il cittadino comune che lo guarda, lo guarda. Lo guarda e non fa niente.

Noi abbiamo deciso di agire. E agendo abbiamo imparato a guardare meglio. La rabbia si è trasformata in lotta, l’impotenza in volontà di fare. Noi crediamo che le frontiere siano il frutto della paura, dell’odio, della sofferenza degli esseri umani e vogliamo abbatterle, in senso fisico e ideale.

Solidarietà radicale significa saper comunicare, organizzarsi con i migranti, collettivizzare le risorse, autogestirle, condividere idee e pratiche, costruire una lotta comune. Significa abbattere le frontiere mentali per poter annullare quelle fisiche.
Il razzismo è il frutto marcio del colonialismo e dello sfruttamento, è la scusa, la spiegazione alle ingiustizie sociali che gli idioti danno a sé stessi, fomentati dalla propaganda fascista dei politicanti.
In controtendenza con questo, vogliamo liberarci dal pensiero coloniale che vede il migrante come un debole, una persona da gestire, al limite da aiutare, subordina la sua vita alla generosità e alla carità di chi lo accoglie.

Convinti che la Resistenza sia innanzitutto liberazione dal pensiero fascista, che esclude per identificare, uccide per vivere, immaginiamo comunità meticce, solidali, libere da pregiudizi e conflitti tra poveri, come unico futuro di pace in un mondo senza frontiere.

Noi partiamo da qui. A Ventimiglia, Calais, Idomeni, Marsiglia e ovunque, diffondiamo le reti di lotta no borders.
La solidarietà è la nostra arma contro la guerra.

We are not going back!

NoBorderLAB