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PER FARLA FINITA CON L’IDEA DI SINISTRA PER SUPERARE IL NON-MOVIMENTO.

da Autonomia Diffusa Ovunque – 3 giugno 2016
Sala ha vinto le primarie, come ha vinto Expo, così come sta vincendo il partito della nazione, un progetto politico che mira ad unire le personalità e i gruppi di potere progressisti e dinamici dell’Italia sotto la bandiera del nuovo partito del neo-liberalismo italiano, il PD. Le conseguenze su larga scala le stiamo vedendo con l’eliminazione degli ultimi residui di welfare sociale, con una zona di indistinzione sempre più palese tra politica, polizia e magistratura, con il governo dei commissariamenti che attuano di fatto gli interessi di una classe politica ed economica che cerca di mantenere i propri privilegi sulla pelle di tutti.
Chi sta dall’altra parte della barricata, chi dal basso cerca un cambiamento reale, dove si posiziona in questo momento? C’è bisogno di autocritica e di cambiamenti radicali per poter fare piazza pulita degli errori collettivi fatti negli ultimi decenni, e per dissipare la confusione generale di un non-movimento disgregato in parrocchie impegnate più a mantenere la propria schiera di fedeli in disfacimento che a costruire comunità, pensieri e pratiche di autodeterminazione e un immaginario rivoluzionario.
Il Primo Maggio milanese ha segnato un momento di rottura e dopo un anno bisogna riflettere sul divenire: non tanto per trovare colpevoli o innocenti, né tanto meno per misurare i muscoli, ma per trovare alla radice il problema di un fallimento collettivo nato tanto tempo addietro. Lo smarrimento generale dopo la Mayday del 2015 ha solo mostrato l’inconsistenza di un modo di concepire la lotta privo di idee, proposte e pratiche di cambiamento reali, poco coraggioso e troppo ingenuo, debole credendosi furbo, poco proletario e molto borghese. Un movimento non si sviluppa né muore in quattro incroci e quattro vie vittima di qualche vetrina rotta e qualche macchina incendiata. Il primo maggio non è stato ne l’inizio né la fine di qualcosa, ma l’affermazione di una debolezza e di una contraddizione collettiva. Soffiamo su queste ceneri, e ci apparirà sotto un mondo che palpita.
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Perché un non-movimento?

Un movimento è l’espressione dei percorsi, delle lotte, del conflitto locale e nazionale. Un movimento ragiona in termini di avanzamento e non di auto-rappresentanza, mette insieme esperienze, risorse, idee, ipotesi e le mette in pratica. Ma soprattutto questi percorsi dovrebbero avere una prospettiva territoriale, essere in grado di far nascere forme di vita e di creare una forza collettiva che agisce nel territorio in termini di costruzione di comunità solidali e conflittuali. Questo vuol dire gettarsi nella mischia a partire dai luoghi in cui siamo, ascoltare e discutere in modo orizzontale e collettivo, rompere le barriere della diffidenza e della paura. Non pensare a sé stessi ma alla potenza comune di un movimento rivoluzionario.
I movimenti di lotta per la casa degli ultimi anni, nonostante abbiano portato in piazza o davanti ai picchetti contro sfratti e sgomberi migliaia di persone, nella maggior parte migranti, nonostante in certe occasioni fossero dei veri e propri movimenti di massa, ora si trovano intrappolati tra la debolezza della prospettiva collettiva e l’accelerazione sfrenata a livello legislativo e repressivo, che se non impediscono di certo riducono di tanto la riproducibilità di pratiche di massa come l’occupazione e addirittura colpiscono con leggi come l’art.5 le fondamenta di una vita in lotta. Di pari passo c’è la difficoltà di inserire percorsi di riappropriazione nel tessuto territoriale e di rompere le barriere tra occupanti e non occupanti, tra italiani e stranieri.
Pensiamo all’eccezionale lotta che i facchini combattono davanti a centinaia di stabilimenti e magazzini. A parte la partecipazione e la solidarietà espressa da tanti compagni generosi, quel blocco conflittuale e di classe non fa parte di quello che si intende tradizionalmente come movimento. Nonostante ciò la questione dell’agibilità e del rapporto di forza è la regola in tanti magazzini e stabilimenti della logistica dove centinaia di lavoratori iscritti al Si Cobas esprimono una resistenza ed un attacco che mettono in difficoltà le politiche criminali delle aziende a volte superando il sindacato stesso.
Allo stesso modo tanti occupanti di casa e sfrattati fanno fatica a comprendere l’agenda di movimento, soprattutto quando manca quel sentire comune che permette di agire come forza collettiva e non come atomi disgregati. E’ anche successo che si chiedesse una moratoria degli spazi sociali e non degli sfratti e degli sgomberi palesando di fatto una separazione tra un ambito di lotta e uno spazio di auto-riproduzione. Quando questa separazione invece si riduce, la contaminazione e l’amicizia creata nella lotta permettono lo svilupparsi di tutt’altre prospettive.
E poi ci sono i sindacati protesi più ai numeri degli iscritti che alla potenza collettiva, più alla vertenza che a preservare l’autonomia conquistata. Accordi su accordi, giochi di potere interni e una competizione infinita tra sigle ci descrivono un panorama sindacale disgregato e incapace di creare avanzamento al di fuori della rappresentanza e dell’auto-celebrazione.
Detto ciò, tutti i settori si trovano a dover subire forti attacchi da parte del governo intenzionato ad eliminare ogni forma di dissenso che metta in pericolo gli interessi e gli affari del partito della nazione. Davanti a questi attacchi non c’è un movimento di studenti, operai, migranti, occupanti, sindacati o assemblee di quartiere che si mobilitano compatte, così come non c’era durante la riforma del lavoro, della scuola e delle pensioni.
Gli errori sono normali. Nessuno ha la già una ricetta pronta a meno di non essere abbastanza umili o sinceri con sé stessi. Fraintendimenti e scazzi, se si è nell’ottica di una potenza collettiva, andrebbero risolti nelle sedi adeguate lontane dagli occhi dei nostri nemici, a costo di pigliarci a sediate e di creare rotture, per avanzare nelle possibilità rivoluzionarie che sono in gioco, non guardando alle nostre identità politiche, ai nostri calcoli e ai nostri egoismi.
Il non-movimento invece può permettersi di prescindere da necessità etiche e strategiche, non ponendosi il problema della solidarietà davanti alla repressione, perché la solidarietà si dà solo ai propri amici, anche se di mezzo ci va l’agibilità di tutti (e la vita di alcuni). Forse allora il problema non è il movimento, ma la sua assenza. Bisogna ripartire da questo vuoto e questa assenza, rimettendosi in discussione e sciogliendosi nel movimento reale, quello che può abolire per davvero lo stato di cose presenti. Per questo è fondamentale stare in mezzo alle contraddizioni per capirle e superarle. I rivoluzionari oggi devono avere la capacità di trovarsi nel luogo giusto al momento giusto.
Abbiamo bisogno di comunità di quartiere, di gruppi di studenti, di lavoratori combattivi, di migranti in lotta: forme collettive reali che si pongono la questione dell’auto-organizzarsi, la questione della vita a partire dalla lotta che portano avanti. Quello che non serve più sono i contenitori politici, sigle vuote ed esclusivamente rappresentative, i centri sociali che rappresentano se stessi e che al massimo soffocano le istanze politiche in dinamiche identitarie parrocchiali, i maestri di radicalismo tutti tesi a seguire le proprie pulsioni soggettive.
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Dicotomia movimenti-istituzioni, forza popolare-governo.

Torniamo indietro di 5 anni, a Milano, quando Pisapia era l’anti Moratti, la nuova speranza per la sinistra cittadina. Quando il movimento milanese era diviso tra chi non ne voleva sapere niente della politica istituzionale e chi invece era in attesa di quella “vittoria” che mettesse fuori gioco la destra che da anni governava Milano. Qualcuno la poteva chiamare ai tempi strategia, ma il problema è sempre la stessa modalità ambigua e confusa di confondere il patrimonio delle lotte dal basso con ciò che si decide nei piani superiori, come se Pisapia fosse stato il risultato di anni di lotte che in quel momento si stessero ponendo la questione della rappresentanza e del governo. C’è chi crede in questo percorso politico e prende ispirazione cercando ridicolamente di replicare in Italia le esperienze dei governi di sinistra dell’America Latina o di Siryza in Grecia o di Podemos in Spagna.
L’appartenenza ai residui di un’ideologia, più che la ricerca di pratiche rivoluzionarie e emancipatrici ha fatto in modo che tanti non riuscissero a vedere i limiti di questi modelli. Abbiamo visto in America Latina la distanza che si è venuta a creare negli anni tra la classe dirigente e la base militante, il tradimento dei governi nei confronti dei movimenti indigeni e sociali. Perché in mancanza di idee su come creare un mondo nuovo, di cosa farcene della potenza e della forza materiale autonoma accumulata nei territori, la questione del governo prende sempre il posto della rivoluzione e in Latino America a parte le esperienze collettive di riappropriazione, di autogoverno e autogestione dei territori dei vari movimenti indigeni, rurali e urbani, dai piani alti non si è mai vista nessuna proposta che mettesse in discussione il modello neo liberalista di sviluppo capitalista. La politica dell’estrattivismo petrolifero e minerario e dello sfruttamento delle risorse naturali è ancora oggi il modello di vita che i governi progressisti propongono come alternativa al mondo vecchio. In nome dello sviluppo la “Pachamama” [1] è stata violentata e calpestata nonostante fosse il pilastro delle nuove costituzioni andine e chi ha osato sfidare i governi per difenderla è stato duramente represso e in alcuni casi accusato addirittura di terrorismo.
La stessa cosa l’abbiamo vista in Grecia dopo la vittoria di Tsipras, una dirigenza politica che addirittura butta nell’immondizia la forza di un “No” collettivo per cedere ai poteri forti, dopo aver pacificato e frammentato quella forza che si era creata nelle lotte, nelle piazze, nelle fabbriche, nelle università, nelle scuole e nei quartieri della Grecia con la scusa del cambiamento. Ora qualcuno vorrà aspettare di vedere cosa combina Podemos. Ma forse qui non si tratta di tradimento. E’ necessario capire effettivamente di cosa parliamo quando diciamo “sinistra”. Cominciamo a considerare come la politica, nell’accezione moderna, designi sostanzialmente un ambito di gestione di un sistema economico e sociale inamovibile. Il capitalismo ha da un lato le sue strutture economiche (lavoro, valore, merce, denaro) e dall’altro ciò che è necessario al suo funzionamento e ad una riproduzione dinamica (governo, diritto, esercito, polizia), che nell’accezione comune si chiama politica. L’idea di sinistra per quanto voglia attaccare il capitalismo non rompe mai questo schema. Cerca spasmodicamente una gestione “alternativa” di un sistema del quale non mette in questione le fondamenta. Non vuole rompere con il lavoro salariato, il mondo della merce, del valore o del denaro, con il Mercato, il Partito o lo Stato, che spaccia come “orizzonti insuperabili” (quando dovremmo ricordarci che esistono da non più di qualche secolo).
Forse il problema è qui, ogni volta che sono scoppiate delle rivolte incontrollabili in giro per il mondo, la rappresentanza ha aperto la strada alla pace sociale e ha disgregato in mille particelle quella rabbia e quella massa di persone che erano state capaci di mettere in questione un intero modo di vivere. Con il voto si smette di pensare collettivamente come si fa quando bisogna organizzare un’assemblea, uno sciopero, una barricata, un’azione e torniamo ad essere individui soli. Si elimina un tiranno e si invita i rivoltosi a tornare a casa davanti alla TV per poi andare alle urne a votare il prossimo politico , la nuova maschera sopra il vecchio cadavere.
E’ la lotta a permettere ciò che prima sembrava impossibile, il buttarsi nelle contraddizioni, il lavoro di base quotidiano, quel lavoro che crea teoria, immaginario e apre delle possibilità. La potenza cresce quando smettiamo di essere spettatori del nostro destino e decidiamo di essere protagonisti. La catastrofe si trasforma in possibilità quando si trova un contatto con il mondo, quando ci accorgiamo di non essere soli e che il cambiamento può partire solo da ciò che dal basso riusciamo a costruire per rovesciare il mondo di sopra.
Quindi la domanda è: ci interessa costruire dei territori in grado di organizzarsi e autogovernarsi o avere dei territori da governare? Ci interessa porci il problema di come creare forme di vita rivoluzionarie o elettori disposti a salire sul carrozzone della speranza? Vogliamo forse una Repubblica socialista, un Capitalismo verde o di Stato, un auto-sfruttamento gestito collettivamente? O cerchiamo piuttosto un auto-organizzazione delle nostre vite, uno sviluppo autonomo dei nostri mondi?

Milano tra promesse tradite e rappresentanza borghese.

Dove sono rimaste le promesse della giunta arancione e quanto il movimento è stato rallentato da chi aveva i piedi in due scarpe? Abbiamo visto la politica sociale dell’alternativa al PD a Palazzo Marino. Il conto degli spazi sociali sgomberati lo abbiamo perso, gli sfratti e gli sgomberi di famiglie sono aumentati. Nella memoria collettiva rimarrà impresso quel tentativo di sgomberare 200 famiglie in nome di Expo nel novembre del 2014 e lo vediamo oggi con il piano regionale che smantellerà definitivamente l’edilizia pubblica o con i piani di intervento nelle periferie.
Un esempio della confusione che regna sono i piani speculativi che il governo cittadino e regionale hanno sul quartiere Giambellino. Rappresentanti di associazioni e di progetti finanziati dalle istituzioni (e quindi ricattabili) che siedono a tavoli con rappresentanti del governo locale e prendono decisioni al posto degli abitanti del quartiere. Associazioni e personaggi con i piedi in due scarpe che arrivano a fare patti con Renzo Piano spacciandoli per riqualificazione partecipata e dal basso.
Nella storia i movimenti si sono posti sempre il problema del rapporto con le istituzioni e con i governi. Quando si picchetta davanti a una fabbrica lo si fa per ottenere degli obiettivi che a volte passano per dei tavoli di trattativa, lo stesso fanno a volte i movimenti di lotta per la casa, ma ciò ha senso se si punta sempre a mettere davanti il rapporto di forza e a preservare l’autonomia conquistata con la lotta. Quell’autonomia che distingue i politicanti da chi lotta per costruire mondi nuovi e non per essere riconosciuti e assorbiti dal mondo vecchio. Come se le istituzioni a priori fossero amiche delle lotte.
Gli ultimi si devono auto-organizzare, il mondo di sotto deve tornare a fare tremare questa città e questo paese. Solo questo potrebbe cambiare i rapporti di forza attuali e porre fine alla borghesia dei ceti politici di sinistra e di movimento, ma soprattutto al modo coloniale di vedere la lotta e la rivoluzione. Il mondo vecchio non può essere riformato, la nostra sfida riguarda la secessione verso ciò che fu e la scoperta di ciò che può e deve essere. Chi non ha paura di perdere qualcosa perché non ha niente, chi non pensa a un domani perché un presente non ce l’ha, chi il problema della violenza non se lo pone perché la violenza la subisce tutti i giorni, ecco chi fa paura alla borghesia.

ROMPERE CON L’ESISTENTE, ABITARE LE ROTTURE.

I tempi che stiamo vivendo ci parlano chiaro: è finito il tempo delle mediazioni, il potere vuole chiudere ogni spazio di agibilità che abbiamo conquistato. Tanto si è detto sul significato e la declinazione della parola conflitto. Si può chiamare conflitto un corteo in cui si manifesta senza scontri, una Street parade, il lanciare delle uova, l’occupare una sede. O per conflitto si può intendere lo scontro con la polizia, i picchetti davanti alle fabbriche, il gesto di occupare una casa. In realtà è poco interessante il dibattito sulla pratica più o meno rivoluzionaria, il vero nodo è se ciò che mettiamo in campo agisce in termini di rottura con l’esistente e i suoi poteri o serve a perpetuare un’auto-narrazione dentro agli stessi meccanismi di sfruttamento. Esistono fattori come il rapporto tra le forze in campo, la percezione nel e del territorio, la puntualità nel dibattito che ovviamente influiscono sulla recezione collettiva di un’azione o un gesto, sul sentirsi parte di qualcosa. Ciò che oggi è possibile molto probabilmente prima non lo era, così come ciò che ora non è assumibile domani lo potrà essere, se sarà cresciuta l’intensità delle lotte. Perché ciò che è in questione sono quei gesti che ci fanno passare alla tappa successiva, con i quali tutti assieme superiamo paure e incrostazioni del passato
La differenza sta negli obiettivi, nella strategia. Se lottiamo per colmare i vuoti dello stato e non per esplicitare la vita che vorremmo la rottura non può avvenire e per quanto ci possa essere lo scontro e anche la vittoria, questa tante volte sacrifica l’autonomia e l’organizzazione che si è stati in grado di mettere in campo. I nostri nemici quando concedono qualcosa lo fanno per evitare il peggio, per fare calmare le acque in vista della prossima mossa. Le istituzioni sanno mettere in campo una strategia che mira a recuperare consensi, a dividere i buoni dai cattivi e a eliminare i processi di auto-organizzazione che nascono.
Poi c’è il nodo del consenso, su cui si fa sempre appello quando si vuole nascondere la propria debolezza o vigliaccheria. Il consenso serve, i nostri gesti devono essere raggiungibili, desiderabili, la gente deve avere voglia di fare lo stesso, di venire con noi. Il problema è quale consenso ci interessa, quello della borghesia o quello dei proletari? Il consenso che ci interessa è quello delle persone con cui costruiamo o potremo costruire giorno dopo giorno un’idea diversa di gioia/felicità. Nessuno si è mai chiesto quale fosse l’opinione della gente dei quartieri dopo gli scontri del Primo Maggio milanese, tutte le valutazione partivano dall’opinione “politica” di chi era stato colpito a livello materiale o morale, il racconto del giorno dopo rifletteva il modo di vedere e pensare della borghesia milanese preoccupata di difendere i propri privilegi o del cittadino medio legalitario e perbenista. Allo stesso modo la discussione in rete che è avvenuta (l’unica che c’è stata) è stata influenzata dal racconto maggioritario, di chi ha in mano il monopolio dei mezzi di comunicazione. Cosa ne pensavano gli abitanti del Giambellino, di Corvetto, di San Siro, di Quart’Oggiaro, di Cimiano, di Barona, del Ticinese o degli altri quartieri popolari, vedi occupazioni, in giro per l’Italia? Nelle discussioni a voce in periferia i termini del discorso erano meno imbarazzanti di quelli ufficiali, sia del nostro non-movimento, sia del potere. Qualunque sia il giudizio su ciò che è successo, quando i compagni parlano come parla il potere, bisogna preoccuparsi.
Quando difendiamo uno sfratto, quando picchettiamo davanti ai cancelli di una fabbrica, quando facciamo i collettivi a scuola l’obiettivo non è semplicemente l’affermare una mancanza o una ingiustizia ma affermare una possibilità, ricompattare un sentire e una presenza in termini collettivi e conflittuali. Fare la lotta agli sfratti senza occupare una casa, vincere una vertenza sindacale senza cambiare i rapporti di forza dentro il magazzino, chiedere la libertà di movimento dei migranti senza farsi carico dell’illegalità che comporta il rendere reale la solidarietà, limitarsi a fare appello alla scuola e all’università pubblica senza interrogarsi sul modello di istruzione che ci interessa, sono tanti modi di mantenere e migliorare lo stato di cose presenti e non di rompere con i processi e i meccanismi di pacificazione e di riproduzione sociale che impediscono lo svilupparsi dei divenire e dei possibili rivoluzionari.
Una strategia rivoluzionaria si deve scontrare di continuo con ogni ostacolo le si presenti davanti, per aprire nuovi possibili deve essere in grado di farla finita con gli automatismi, l’auto-rappresentanza. Deve sviluppare processi organizzativi in grado di mettere in difficoltà la controparte, farle paura, rendere difficile il suo lavoro di mediazione politica. Dobbiamo tornare ad essere imprevedibili.
Bisogna però essere in grado di abitare gli spazi che si aprono con le rotture, essere in grado di riempire i vuoti che si creano, di creare proposta politica in grado di superare ciò con cui si è rotto. Se questo non avviene, le rotture vengono abitate e gli spazi vengono chiusi dal potere che si ristruttura, che cambia forma, che rovescia a suo favore la rottura, riassorbendo tutta la potenza che non è riuscita a dispiegarsi. Uno dei problemi e degli errori più grandi di chi oggi agisce in termini conflittuali è l’incapacità di abitare le rotture che si producono, perché i limiti del conflitto vengono a galla quando non si ha la capacità di leggere i cambiamenti, di fare nascere qualcosa in grado di seppellire ciò che c’era prima. Se questo non avviene, il conflitto e la rottura rimangono immortalati e chiusi in una giornata, in poche ore, e non si dispiegano nel territorio, nell’immaginario collettivo. Se non si riescono ad abitare le rotture si finisce indirettamente per mantenere intatto lo stato di cose presenti. I compagni zapatisti ci suggeriscono: “Sapete? Uno degli inganni di chi sta sopra è convincere quelli in basso che quello che non si ottiene rapidamente e facilmente non si otterrà mai; convincerci che le lotte lunghe e difficili stancano e non arrivano a niente. Truccano il calendario del basso sovrapponendo il calendario di sopra: elezioni, apparizione, riunioni, appuntamenti con la storia, date commemorative che occultano solo il dolore e la rabbia.”
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IL CORAGGIO DEI MIGRANTI, UNA NUOVA LOTTA DI CLASSE.

Se pensiamo alla risposta che i movimenti stanno mettendo in campo davanti agli attacchi del governo il morale scende subito. L’ultima volta che si sono visti gli studenti incazzati era nel 2010 ma quella mobilitazione fu cavalcata dal “Partito di Repubblica”, intenzionato a far cadere Berlusconi. E’ più facile ricordare l’ultimo comizio della Camusso che il conflitto operaio in piazza. Se 40 anni fa qualcuno avesse descritto la situazione attuale sarebbe stato preso per pazzo.
Le piazze sono vuote, come vuota è la politica e l’interesse generale per ciò che ci accade intorno. La televisione e gli smartphones insieme a trent’anni di contro-insurrezione hanno distrutto ogni comunità e senso d’appartenenza e prosciugato il mare in cui i movimenti nuotavano. Attraverso un uso strategico della scuola, della fabbrica e del quotidiano, il potere ha costruito, orientato e addomesticato le proprie soggettività impedendo di fatto la possibilità di prendere parte al mondo se non come soggetti disgregati, privi di relazioni sociali reali e collettive.
E’ da qui che partiamo, e senza ritrovare affluenti in grado di impedire al fiume della rivoluzione di prosciugarsi definitivamente saremo dei pesci fuori acqua destinati a una dura e triste sconfitta.
La parola guerra è tornata a far paura negli ultimi 15 anni. Con la scusa della guerra al terrorismo si bombardano e saccheggiano intere zone del pianeta. Allo stesso tempo l’Italia ha visto aumentare l’ingresso di persone provenienti da ogni dove negli ultimi anni. All’inizio i padroni si leccavano i baffi, mano d’opera a basso costo e un nemico interno da esporre per nascondere malaffari, corruzione e giochi di potere.
Ora la situazione è distinta, perché la guerra in Medio Oriente ha scatenato una diaspora verso l’Europa che nessun paese è in grado di sostenere a livello economico e politico. I flussi migratori continuano ad aumentare e nonostante “gli sforzi” dell’occidente per tenere lontani i “barbari” nei prossimi mesi e anni i profughi da non-soggetti, ignorati, lasciati a morire di fame, potrebbero diventare i protagonisti della messa in discussione del modello Europeo e occidentale.
Il profugo è un soggetto creato dal potere coloniale, quando emigra si porta dietro questo ruolo, sia nella sofferenza e nel sacrificio del viaggio, sia nella richiesta di accoglienza. Forse è proprio quando le condizioni materiali che lui si aspetta di trovare vengono tradite che si mette a lottare. Sicuramente su queste persone giocano meno le convinzioni morali che frenano gli italiani, come la legalità, la violenza, la disciplina del lavoro. Forse sarebbero gli unici in grado di fare realmente in occidente la guerra alla guerra.
Chi scappa dalle guerre, dalla povertà e dalla fame, chi lavora in condizioni al limite dello schiavismo non ha niente da perdere e la rassegnazione è l’unica cosa che queste persone hanno dimenticato cosa sia. E’ per questo che i magazzini di mezza Italia scioperano sommersi da mille lingue e dalla determinazione e il coraggio di tanti operai quasi tutti stranieri. E’ per questo che i movimenti di lotta per la casa sono composti maggiormente da migranti. E’ per questo che Ventimiglia e la lotta alle frontiere fa paura al potere, perché non si parla più soltanto di diritti, di documenti, ma di libertà di circolazione, di vita, e si lotta per tutto questo.
Una nuova guerra di classe si combatte sulla pelle dei migranti, chi non ha subito la sconfitta degli anni 70 , 80 e 90, chi ha rischiato la vita lasciando affetti e sogni per cercare di costruirsi un futuro migliore è meno propenso ad abbassare la testa. Di questo magistrati, poliziotti e politici hanno paura, perciò cercano di ricattare i migranti attraverso mille procedure prima di arrivare alla regolarizzazione vera e propria. Arrivare ad essere un cittadino Italiano per un migrante vuol dire sopravvivere ad anni di sfruttamento e percorsi a ostacoli. La cittadinanza stessa è poi posta sotto ricatto: può sempre essere revocata se viene ritenuto che la condotta mette in discussione la sicurezza dello Stato. Un recinto disposto ad inculcare la rassegnazione. Anche per questo le frontiere sono tornate. Per questo bisogna lottare al fianco dei migranti, imparando da ogni comunità, mettendo a disposizioni mezzi e saperi, contaminandosi a vicenda, distruggendo definitivamente ogni visione coloniale della lotta.
Essere presenti dove le lotte dei migranti nascono, fare inchiesta per capire e imparare dalle comunità straniere, studiare i bisogni, creare incontri, sviluppare solidarietà, intrecciare mondi e culture, contaminare e lasciarsi contaminare.
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SENZA SINISTRA ALLA RICERCA DI MONDI NUOVI

Non è il dibattito intorno a sterili giochi elettorali ad interessarci, bensì la riflessione ed il confronto intorno ai territori che viviamo, i percorsi che scegliamo di intraprendere, le nostre difficoltà ed i punti di forza. E’ questo il dibattito che ci dovrebbe interessare e che va costruito partendo dal vuoto e dalle difficoltà materiali che ci troviamo ad affrontare nel presente.
Il panorama politico mondiale è sconvolto da guerre e dalla violenza del capitalismo, ma in tanti posti del mondo il problema della costruzione di infrastrutture partigiane, di forza popolare, di comunità, di autonomia, di autogoverno e di forme di vita come nel Rojava e nelle comunità zapatiste è pratica quotidiana. Allo stesso modo ci sono tante comunità indigene del Sudamerica che, dopo il tradimento di quella sinistra che hanno portato al potere, ora ricominciano ad organizzarsi e a coordinarsi anche con i movimenti sociali metropolitani, così come le esperienze di auto-organizzazione delle periferie di tante metropoli del “continente perdido”, e anche forme di comunità in Messico che combattono quotidianamente contro il narcotraffico creando delle vere e proprie zone di autogoverno autodifese. I nostri modelli vanno cercati nelle pratiche resistenti del ventunesimo secolo.
Il dibattito sulla forza materiale autonoma va rilanciato perché a livello strategico è qualcosa di fondamentale. La costruzione di comunità solidali non è qualcosa di scontato, è qualcosa su cui bisogna scrivere, creare momenti di discussione. A Bologna durante un anno di occupazione dell’ex Telecom decine di famiglie mettevano in comune, per risolverli insieme, problemi quotidiani che solitamente rimangono confinati alle quattro mura domestiche: come iscrivere i figli all’asilo o come ottenere la tessera sanitaria. Perché è questa la base per qualsiasi possibilità di discorso politico. Senza comunità, senza relazioni, senza un sentire comune la politica rimane ai margini, al di fuori della riproduzione della vita di chi abita in un determinato luogo. Forzare questo vuoto, le condizioni sfavorevoli, fare parte della vita che in un territorio si sviluppa, ecco il nostro compito.
Come costruiamo qui e ora una forza in grado di creare autonomia, potenza popolare e solidarietà, come diffondiamo mondi nuovi in ogni angolo delle penisola? Come teniamo lontani gli sciacalli, gli sbirri, gli speculatori, i politici facendo parte di un tessuto sociale reale e non di un ceto politico? Come ci posizioniamo dentro l’attuale scontro di classe? Cominciamo a riflettere sulla nostra incapacità di organizzarci, saccheggiamo tutto ciò che si muove in giro per il mondo, riscoprendo la curiosità e complicità per lotte ed esperienze geograficamente lontane da noi, una curiosità che abbiamo perso negli anni.
Passo dopo passo, granello di sabbia dopo granello di sabbia, sarà un processo lento e lungo, ma bisogna cominciare perché questo è molto meglio che vivere aggrappati ai cadaveri degli Iglesias , dei Tsipras, dei Correa, dei Morales e dei Pisapia di turno e buttare via sogni e desideri alla ricerca eterna di una “Nuova Sinistra” che meno male non tornerà mai più.
Vogliamo abolire la “politica” solo per poterla realizzare. Vogliamo abolirla come sfera separata dalla vita quotidiana. Vogliamo costruire un autonomia che afferma la sua pratica e la sua etica. Dobbiamo rinunciare ad una concezione del politico fondata sulla potenza di entità astratte e unificanti e abitare nella molteplicità concreta degli spazi e dei momenti, ridando alla politica le sue proprietà originarie: un tempo, un luogo, degli esseri, una vita che si fa e si disfa al presente.
Compagni e compagne per l’autonomia diffusa autonomiadiffusa@inventati.org
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[1] Pachamama o Mama Pacha, è la Dea Terra dei popoli andini del Sudamerica, tuttora venerata dalle genti che ancor ‘oggi si riconoscono nella cultura Inca.

TERRITORI DA ABITARE, MONDI DA COSTRUIRE

Introduzione

La rivoluzione non è una sommatoria di atti, né una valutazione morale su ciò che è giusto o sbagliato, e ancora meno un momento in cui esplodono all’improvviso tutte le contraddizioni. La rivoluzione è un processo in cui si misura l’ampiezza o i limiti della nostra strategia. “Noi” rivoluzionari di oggi partiamo da una situazione di separazione e isolamento totale, in cui la fiducia tra le persone è quasi inesistente e qualsiasi cosa è più desiderabile della lotta e della rivoluzione stessa.

Per anni abbiamo teorizzato il fatto che i quartieri non esistevano. Per quartieri intendiamo posti pieni di relazioni, di partecipazione da parte della gente nelle questioni che riguardano il territorio, dinamiche storiche di cooperazione e mutuo soccorso che li differenziavano dal resto della città. Nulla di tutto questo esiste da tempo e la sconfitta degli anni 70 è stato l’inizio di decenni di abbandono e di imborghesimento dei quartieri popolari. Questo però non vuol dire che non esistano delle possibilità di vita diverse da sperimentare in un determinato territorio.
Partiamo da ciò che non c’è e potrebbe esserci. Nulla è di per sé rivoluzionario e nemmeno noi lo siamo. E’ piuttosto nella ricerca, nella sperimentazione e nel mettersi in gioco che possiamo creare delle situazioni rivoluzionarie.

La rivoluzione non arriva, stiamo forse perdendo tempo?

Se in tutti questi anni le cose non hanno preso una svolta è perché abbiamo affrontato il problema da un punto di vista sbagliato. La rivoluzione non è un momento storico in cui la borghesia viene sostituita da un proletariato in armi dopo una battaglia decisiva. E’ rivoluzionario tutto ciò che riusciamo a costruire ogni giorno e che diventa potenza in grado di imporre una geografia affettiva e politica diversa da quella che viviamo oggi.

Nulla di questo può avvenire se non abbiamo una minima idea di ciò che intendiamo per vittoria e per rivoluzione, e se non sappiamo quale rapporto di forza vogliamo contrapporre ai nostri nemici o quale potenza materiale vogliamo sviluppare. Cosa ci serve per essere felici? Quanti siamo e quanto siamo disposti a metterci in gioco? Dalla risposta a queste domande dipende qualsiasi possibilità rivoluzionaria e sarà poi nella cura, nel costruire, nel fornirci di mezzi materiali e nello sperimentare il comunismo che riusciremo a costruire un vero movimento rivoluzionario in grado di saper autogestire un territorio e di guadagnarsi l’impunità. Ad essere chiamati in causa non saremo più “Noi compagni” ma un intero territorio, un’intera comunità.

Ciò che stiamo vivendo ora sono le conseguenze di decenni di interventi politici schizofrenici diffusi nelle città senza una strategia dietro, un terreno solido dove poter camminare, un linguaggio comune con le persone che si pretendeva di coinvolgere. Tutto questo ha aumentato la desolazione e allontanato la rivoluzione come desiderio e possibilità. Ora è necessario aprire una nuova sfida: come si può vivere in modo rivoluzionario e aumentare la nostra potenza? Bisogna tornare a stare nei territori e trovare un linguaggio e dei gesti comprensibili ai suoi abitanti. Il tempo dei centri sociali è finito.

Perché partire da un territorio?

Per troppo tempo abbiamo nascosto la nostra mancanza di strategia rivoluzionaria dietro all’elogio dei momenti di accelerazione, in cui effettivamente succedeva quello che teorizzavamo: incontri, amori, legami, spazi di discussione e non assemblee noiose, e soprattutto azione, tanta azione: dalla costruzione di ciò che serviva per affrontare la lotta agli scontri con la polizia.

Non ci siamo mai chiesti se dietro a questa improvvisa consapevolezza e voglia di mettersi in gioco di persone di ogni età in un territorio non ci fosse la scommessa di qualche gruppo di compagni. Compagni che per anni si erano dovuti seguire assemblee cittadine, manifestazioni di indignazione e tutto quello che solitamente odiamo del cittadino, compreso il suo modo pacato e “ingenuo” di vedere il nemico che lo circonda e che addirittura si alimenta della sua debolezza.

La Val di Susa non è nata dall’oggi al domani, dietro ci sono dei comitati e dei legami di fiducia che si sono creati, ci sono le botte prese che hanno fatto crescere la consapevolezza che la violenza è solo una questione strategica e non morale. Ci sono centinaia di assemblee tra persone che hanno imparato a prendersi cura del proprio mondo e della propria vita e anche di quella altrui dopo aver subito sulla propria pelle le ingiustizie dello stato e della polizia.

E’ necessario partire da un territorio perché non si può mettere in collegamento le comuni in giro per il mondo se non se ne ha una in cui sperimentare ciò che le altre ci hanno insegnato, e non possiamo spingere altri a crearne di nuove se non abbiamo da esportare un esempio, una prassi più che una teoria. La magia sta nel fatto che dopo mesi e anni di lavoro nei territori troviamo sempre più di quanto cercavamo.

Abitare come presupposto per ogni intervento politico

Ci sono esperienze che ci formano e ci fanno vedere il mondo da una prospettiva diversa. Un esempio di questo è stato il presidio No Borders di Ventimiglia: un confine, un posto di transito che all’improvviso diventa presidio, campeggio, punto di appoggio, un luogo di aggregazione dove si discute in varie lingue. Una base politica per affrontare il razzismo della frontiera Europa. Ragazzi di tutta Italia che prima non avevano mai militato direttamente in nessuno dei collettivi storici italiani, all’improvviso iniziano a parlare di legami, incontri, affetti, invece che di assistenzialismo, pool legale, diritti costituzionali,ecc.

La forza di Ventimiglia sta nel fatto che come in Piazza Tahir, al campeggio di Chiomonte, Piazza Taksim, Piazza del Sol intorno a una lotta contro un’ingiustizia si scopre la vita, la felicità di lottare insieme, di costruire con le proprie mani qui ed ora un’alternativa alla miseria che ci vogliono imporre. Si scopre che forse non vale la pena andare fino in Germania a trovare un futuro migliore, perché il futuro è già qui, nella solidarietà e nell’amicizia, nella gioia del amico che ce l’ha fatta grazie al nostro aiuto e nella rabbia per i ragazzi chiusi in un container dalla gendarmeria francese.

Abitare un confine, trasformare l’indignazione e la rabbia in potenza collettiva, mettere a disposizione mezzi e saperi. Quando parliamo di abitare non ci riferiamo solo alla lotta per la casa o all’occupazione, ma al fatto di creare nuove geografie, stravolgere i territori che sembrano inabitabili e renderli luoghi dove è piacevole stare, da dove non vorremo mai andarcene. Tutto questo finisce quando diventa solo un momento di passaggio e non qualcosa che deve resistere e svilupparsi, perché i rivoluzionari non possono permettersi di mancare un’occasione come quella di Ventimiglia. Quando si dice “portare Ventimiglia ovunque”, per “Noi” rivoluzionari vuol dire esportare quella esperienza e adattarla alle particolarità del proprio territorio, contribuire a creare una rete nazionale e Europea in grado di rompere le barriere del razzismo e della governance capitalista.

L’esperienza dell’Ex Cuem alla Statale di Milano ha da insegnarci il fatto che anche in un ambiente difficile e atomizzato come quello universitario ci sono delle possibilità. Ai tempi tanti compagni lavoravano su un piano totalmente diverso, e il fatto di aver avuto la possibilità di incontrare gente nuova ha permesso di vedere quel luogo con un’altra prospettiva come era successo in Val di Susa. Incontrarsi e discutere con compagni di altre realtà politiche con cui si condivideva la stessa lotta è stata una novità che ha stravolto per un periodo gli equilibri meschini del movimento milanese.
L’alchimia derivava dal fatto che insieme si condivideva un’esperienza e una lotta che riempiva di gioia, e questo ha fatto in modo che tutti si mettessero in gioco. Quando si sono messi di mezzo gli equilibri delle parrocchie, automaticamente è finito l’entusiasmo e i calcoli hanno preso il posto della lotta.

Percezione comune delle possibilità e dei limiti

Il mondo che ci circonda è il mondo dove agiamo, dove ci muoviamo. Capire come funziona e cosa si muove al suo interno è importante per disegnare una strategia da applicare nel territorio dove agiamo. Partire da un’idea e riempirla di prospettive, dei sogni di ognuno, dell’energia di tutti; analizzare ogni passaggio, ogni vittoria e ogni sconfitta porta allo svilupparsi di un piano di consistenza comune, che fa di ognuno di noi una potenza e non un gregario o un semplice spettatore. Pensando al Giambellino, possiamo vedere come non sia stato un percorso monolitico, ci siano stati vari passaggi e ognuno di questi ha visto crescere tanti compagni che si sono dovuti confrontare con la realtà del quotidiano e della lotta che si porta avanti. Qui la teoria si è dovuta adattare a un linguaggio comprensibile da chi abita il territorio, a un tatto sviluppato nell’agire a seconda del contesto in cui ci si è trovati e che solo chi lo conosce e lo vive può comprendere.

Se non si ha una percezione comune non è perché ci sono punti di vista diversi, ma perché a volte qualcuno è immerso nella lotta e qualcun altro è ancorato a se stesso e ai propri principi. La contrapposizione ha senso se si oppongono dei percorsi e dei modi di intervento, non dei dogmi morali o ideologici. L’esperienza ci insegna che quando ci siamo, quando ci crediamo, la consapevolezza di contribuire alla costruzione di una potenza rende il nostro intervento parte della vita stessa che sogniamo e che stiamo realizzando e non militanza fine a se stessa.

Combattere un nemico organizzato per impedire la rivoluzione

Qualcuno anni fa diceva che eravamo il 99%, peccato che quell’1% sia organizzato al punto tale da rendere inutile ogni nostro intervento. Forse sarebbe il caso di prenderne atto e partire da questa semplice consapevolezza: davanti a noi c’è un nemico organizzato per impedire la rivoluzione e per mantenere la propria egemonia culturale e politica.

Uno degli errori più grossi che possiamo commettere oggi è non essere organizzati, tagliarci le ali da soli o avere paura di divenire potenza. Spesso si rischia di avere una visione minimalista delle cose, come se tutto girasse intorno a noi e ai nostri quattro amici e come se il problema dell’organizzazione riguardasse il semplice desiderio di diventare struttura. La verità è che ogni cosa che facciamo nella vita ha bisogno di organizzazione: dalla scuola, all’università, al lavoro. Dobbiamo organizzare il nostro tempo, calibrare i nostri impegni, scegliere quando possiamo fare una cosa e quando no. Il fatto che la rivoluzione abbia bisogno di compagni organizzati è un’ evidenza che non può più essere ignorata, perché senza questa consapevolezza la potenza rimane ferma e col tempo si esaurisce.

Proviamo ad immaginare un quartiere in cui è attiva una palestra, un ambulatorio popolare, una scuola comunitaria e una scuola di calcio. Dove abbiamo un laboratorio di falegnameria, una trattoria autogestita e un forno dove fare il pane o la pizza. Allo stesso tempo una libreria, uno sportello del lavoro e un altro sulla casa. Un’assemblea sulle questioni di genere, un mercatino dell’usato, ecc ecc. Come possiamo immaginare di poter fare queste cose se non siamo organizzati sia per far funzionare la potenza collettiva, sia per coinvolgere le persone che conosciamo in queste attività? Anche nelle conoscenze che facciamo ci vuole la parte qualitativa e il suo raggiungimento è in subordine a questa organizzazione.

Abbiamo bisogno di prenderci cura di ogni passaggio, di ogni gesto, di ogni azione che facciamo, avere cura della potenza che vogliamo costruire, perché senza questa cura e attenzione non potremmo mai raggiungere i nostri obiettivi. La disciplina che ci deve caratterizzare in ciò che facciamo deve essere verso quello in cui crediamo e che stiamo costruendo. E’ chiaro però che se non ci crediamo non avremo ne la disciplina, ne la cura, ne il tatto, necessari per portare avanti il nostro agire e finiremmo per rinchiuderci nell’auto-celebrazione di una presunta spontaneità il cui unico metro di misura è il nostro personale sentire, sancendo così la nostra sconfitta.

Perché intervenire e non lasciare che ogni cosa si sviluppi da sola?

Lo spazio non è neutro, in esso ci sono dei legami, delle abitudini, delle storie, delle paure. Arrivare in un quartiere non vuol dire “colonizzare” un territorio, ma imparare ad abitare in modo diverso ogni spazio, capire le dinamiche che ci sono al suo interno, prendere parte in mezzo a tutte le sue contraddizioni.

In Giambellino ad esempio la maggior parte dei suo abitanti sono anziani, persone che si sentono tradite e abbandonate da tutti: dalle proprie famiglie e dalle istituzioni, hanno paura di tutto e di tutti. Esistono delle comunità migranti che nei cortili dove vivono hanno saputo tessere dei legami e farsi riconoscere. Questi convivono con una piccola “malavita” che si arrangia e tira avanti senza però terrorizzare il territorio e i suoi abitanti. In Giambellino noi siamo gli antirazzisti, ma anche “quelli dei centri sociali”, quelli che aiutano la gente, ma anche quelli che occupano le case fregandosene di chi è in lista, quelli che aiutano i bambini e gli anziani, ma anche quelli che portano degrado. Dentro questa schizofrenia però ci stiamo e prendiamo parte e dentro queste contraddizioni l’immaginario cresce sempre di più.

La comunità sudamericana arrivata grazie alle occupazioni del comitato e prima pressoche inesistente, ora piano piano sta trovando i propri spazi in quartiere, tessendo i propri legami e adattando la propria cultura rispetto alle altre con cui si trova a vivere nel quotidiano. Gli occupanti in generale attraverso il vivere il quartiere sono l’avanguardia di un modello di vita fatto di solidarietà e amicizia. Se fanno un lavoro nel proprio cortile è un aiuto per tutti che porta crescita e questo fa in modo di mettere in discussione la figura degli “attivisti dei centri sociali”. Tutto questo avviene perchè decidiamo di intervenire.

In Giambellino ci sono le stesse persone di prima, con tante famiglie nuove che hanno portato una nuova prospettiva al quartiere, ci sono le stesse contraddizioni ma anche delle nuove possibilità che prima non c’erano, il racket è diminuito grazie alla solidarietà come presupposto per le occupazioni. Abbiamo trovato i nostri spazi e ogni giorno è una lotta per avere dei nuovi amici, per aumentare la potenza del comitato e per eliminare la paura e la diffidenza.

Intervenire non vuol dire ignorare tutto ciò che di diverso si muove nel territorio, ma imparare a convivere con tutto ciò che c’è in esso, capendo le giuste distanze e i giusti avvicinamenti secondo il momento e il contesto. Se in Giambellino possiamo parlare di intervento rivoluzionario non è per gli enunciati che nel tempo si sono dovuti confrontare con la realtà del territorio, ma perché ciò che stiamo costruendo ha di rivoluzionario la messa in gioco di tante persone diverse tra di loro che si trovano nel quotidiano per discutere di come rendere la propria vita migliore. Questo piano non esisteva per loro, come per nessuno dei compagni lì presenti, prima di novembre dell’anno scorso.

Cosa intendiamo per potenza collettiva

La qualità e il senso della vita che vogliamo dipende da quanto siamo in grado di costruire con le nostre mani il mondo che desideriamo e da come riusciamo a collettivizzare i saperi individuali. La potenza è tutto ciò che ci facilita la vita e ci rende autonomi rispetto al capitale. Perché è questo il senso che dobbiamo dare alla lotta, costruire qui e ora il nostro mondo, prenderci quello che ci serve, organizzarci per fare aumentare questa potenza.
Una lotta e un progetto politico hanno bisogno di mezzi materiali: avere un laboratorio di falegnameria o un forno a parte darci la gioia di lavorare insieme in un progetto comune ci può permettere di avere un contatto reale con questo mondo in cui il capitalismo ha una risposta per tutto. Abbiamo disimparato a fare un sacco di cose o forse non abbiamo mai imparato a farle.

Il piano di consistenza serve per indirizzare le idee e i progetti in un’ottica di crescita comune. Abbiamo bisogno di una padronanza collettiva e non individuale delle tecniche e dei saperi per fare crescere la nostra potenza. E’ costruendo questa potenza nel quotidiano, fornendosi di mezzi materiali, che si riuscirà a destituire questo mondo marcio, almeno dove siamo, dove agiamo. Il resto significa collegare le comuni, collegare le potenze materiali in giro per l’Italia, per l’Europa e per il mondo.

Sulla divisione tra compagni e popolazione, tra “noi” e la “gente”

Partiamo da un presupposto chiave: la nostra lotta è una lotta di massa, non una lotta fatta da chi pensa di aver già capito tutto e vede gli altri come dei semplici burattini dimenticandosi chi era prima di aver conosciuto i compagni e aver iniziato ad avvicinarsi alla lotta. Queste persone condividono una frustrazione di fondo e riproducono all’infinito dei club dove si può entrare solo con la tessera “compagni affini”. Una lotta di massa non si basa unicamente sulla questione numerica, ma soprattutto sulla scommessa di riuscire ad avere un rapporto quantitativo e qualitativo allo stesso tempo, un coinvolgimento reale delle persone nelle lotte e nei percorsi che si portano avanti. Ed è questa la cosa più difficile che richiede più attenzione e tatto per rendere desiderabile la rivoluzione alle persone che ci circondano, trovare un linguaggio comune con chi abita un territorio, cercare modalità per guadagnare la fiducia della gente.

La questione delle masse è stato sempre il punto di scontro con tanti compagni che nascondono la propria incapacità di agire nell’esistente dietro la critica sterile delle masse. Chi ambisce alla costruzione di una potenza collettiva, al vedere avanzare e allargarsi il proprio terreno, non può non porsi il problema di riuscire ad attivare percorsi di partecipazione, di passare dal bisogno all’autonomia.

La divisione tra compagni e il resto degli abitanti di un territorio è qualcosa che giova solo ai nostri nemici, facilitando il lavoro di isolamento che portano avanti nei confronti di ogni lotta o collettivo politico. Da soli ci emarginiamo e ci mettiamo all’angolo illusi di aver capito tutto e che gli altri siano invece parte del problema. Pensare questo vuol dire negare l’essenza del capitalismo, non partire dalla consapevolezza che tutto si basi sulla separazione e la mancanza di relazioni. “Noi” compagni dobbiamo fare il contrario, essere parte della popolazione, della gente, del territorio, agire nelle contraddizioni imparando a leggere gesti, abitudini e paure, cercando di trovare in tutto questo delle possibilità. Fare degli incontri il nostro asso nella manica, lasciarci contaminare, rendere visibile quello che vogliamo fare e perché lo facciamo.

Molto spesso ci si trova invischiati in un falso problema quando si ragiona su chi debba dettare i tempi di una situazione, se i compagni o gli altri presunti “soggetti” in campo, siano essi occupanti, migranti o studenti. Da un lato c’è l’arroganza dei militanti che si percepiscono come un’avanguardia perfettamente in grado di dirigere un processo politico, dall’altro una volontà di farsi da parte che in realtà nella frase “devono decidere loro” tradisce un paternalismo di fondo e mantiene una separazione invece di costruire un piano di consistenza comune. Questo fa in modo di provare a rovesciare il tavolo, di far ritrovare isolati gli sbirri, lo stato e qualunque forma di organizzazione che preveda lo sfruttamento e la speculazione sulla povertà e sulla miseria. Facendo così possiamo invertire la tendenza attuale e i nostri nemici dovranno cambiare strategia o meglio dovranno per forza di cose mostrare il proprio volto. Non potranno più chiamarci terroristi o dipingere un quadro fatto di pochi cospiratori pericolosi, al massimo ad essere sotto accusa sarà un intero territorio, un’intera comunità, una forma di vita e qui le cose cambiano.

Sportelli, bisogni e forme di vita

Spesso si dice che le persone incontrate tramite gli sportelli, che sia per uno sfratto, un’occupazione o per la questione delle bollette, le incontriamo solo sul bisogno e non sulla base di una comune tensione rivoluzionaria. E’ certamente vero, ma questo dovrebbe stimolarci ad una riflessione. La forma di vita dei compagni molto spesso si basa su un comune rifiuto del mondo, sul quale ci si trova e rispetto al quale ci si organizza, ma che troppo spesso prende il sopravvento a scapito della reale costruzione di un’esistenza rivoluzionaria nella sua materialità. Il punto in comune diventa negare questo mondo piuttosto che costruirne un altro. In questo contesto passa in secondo piano il fatto che realmente si sia in grado di vivere un presente diverso grazie al dispiegarsi di una potenza che è tanto affettiva quanto materiale. Quando a vivere insieme sono solo compagni possono non preoccuparsi che ciò di cui si parla sia effettivamente realizzabile, effettivamente vivo, perché basta la consapevolezza di un sentire comune che però troppo spesso rimane un’enunciazione vuota.

In uno sportello contro la crisi non bisogna vedere solo un escamotage per attivare nuovi incontri ma la volontà di costruire una forma di vita che sia realmente più desiderabile di quella che offre la metropoli. E questo non significa abbassare le proprie pretese, rinunciare o scendere a compromessi per venire incontro ad un soggetto che supponiamo più “debole” (come quando chi vuole giustificare la propria immobilità gioca il jolly delle “famiglie” da tutelare), ma piuttosto rilanciare la posta in palio della scommessa rivoluzionaria, affermando che può essere assunta da chiunque e che non si tratta di una strada fatta di sacrifici, rinuncie e frustrazioni di qualcuno che si rinchiude nel rifiuto di un mondo che sarà sempre più forte di lui.

Costruire un territorio resistente vuol dire realizzare un tessuto in cui si possano crescere bambini, curarsi, studiare e vivere veramente meglio di come vivremmo normalmente. E per fare questo si parte dai bisogni, dalla capacità di costruire un rapporto di forza collettivo che migliori fin da subito la vita in tutti i suoi aspetti. Organizzandosi rispetto ai bisogni, anche a quelli più immediati e magari di natura solo economica, si dissipa la coltre disordinata di parole con cui troppo spesso si ammanta una vita che di rivoluzionario ha poco e si comincia nell’immediato a mostrare la potenza che si può esprimere lottando insieme.

Questione strategica e non militare

Succede spesso che in mancanza di prospettive rivoluzionarie o di voglia di sporcarsi le mani e confrontare la propria ideologia e pensiero col reale si faccia appello a dei miti. Questi possono essere di due tipi. Il primo riguarda i governi socialisti sudamericani o le esperienze “comuniste “ come l’Urss o l’ex Jugoslavia, ed è la via di tanti orfani della sinistra che trovano ispirazione in queste esperienze senza mettere in discussione le contraddizioni e le dinamiche repressive che in questi regimi si sviluppano o si sono sviluppate, spacciando per rivoluzionario un capitalismo di stato che non ha mai eliminato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e che nella maggior parte dei casi nasconde e ha nascosto la propria vigliaccheria dietro alla criminalizzazione dei movimenti.

L’altro mito riguarda l’esperienza delle avanguardie armate di vari paesi o territori. Nell’intento di esaltare l’azione a tutti i costi si fanno esempi di alcune esperienze di lotta armata che vengono motivate solamente dal fatto che combattevano l’imperialismo, il capitalismo o gli americani. La questione è che ogni territorio ha le proprie caratteristiche e ogni gruppo armato ha avuto sempre un contatto col territorio in cui si trovava ad agire ed era sempre chi viveva il territorio ad appoggiare la lotta armata, dopo che ogni “prospettiva democratica” si era esaurita. Così questi gruppi diventavano avanguardie di un sentire generale, di una popolazione in armi. La scelta della lotta armata è sempre stata una scelta strategica e non una questione di muscoli, ma soprattutto la necessità delle popolazioni di arrivare ad affrontare una guerra civile o una guerra contro lo stato è sempre derivata dalla difesa di un sentire comune di migliaia o addirittura di milioni di persone.

Basta pensare a Cuba dove senza l’appoggio dei contadini e la costruzione di scuole, fabbriche autogestite e di ogni mezzo di sussistenza per affrontare la guerra, la vittoria non sarebbe mai stata possibile. Le rivendicazioni riguardavano il sentire generale della popolazione e non un’ideologia minoritaria che si faceva avanguardia di se stessa. Lo stesso vale per gli Zapatisti e per tanti movimenti indigeni del sud America dove le comunità in lotta decidono di armarsi per difendere la propria autonomia. Il Rojava è un altro esempio di lotta territoriale che si arma per difendersi sia dall’imperialismo americano e turco, sia dal nazismo dell’Isis. Ciò che è in gioco è la vita di un progetto politico, la libertà delle persone e l’autonomia di un’intera popolazione. Anche le Brigate Rosse erano forti e popolari finché avevano radici nelle fabbriche e l’appoggio degli operai.

Chi contrappone all’organizzazione quotidiana dal basso il mito di queste avanguardie, o dimostra un’ignoranza di base, o mente a se stesso, perché anche se si parla di contesti e di situazioni radicalmente diversi a livello storico e materiale, non esiste ne è mai esistito gruppo o progetto politico che abbia apportatato dei cambiamenti radicali senza l’appoggio della popolazione. Per questo la questione è sempre politica e strategica e mai direttamente militare. Non si può combattere una guerra, senza pensare di poterla vincere e per vincerla è necessario credere che non saremmo soli a combatterla.

Il potere è logistico o sta nei palazzi?

Che il potere sia logistico e non stia nei palazzi, così come che un paese possa stare senza governo per mesi senza mutare la propria tabella di marcia è chiaro a tutti. E’ chiaro che il potere sia ovunque, dalle relazioni alle infrastrutture, nelle nostre paure e nei nostri sogni. I palazzi sono solo luoghi di rappresentanza, mentre tutto il resto passa attraverso una rete infinita di gesti, di produzione e di governo.

La questione è che non stiamo giocando la battaglia finale, siamo anzi in una fase in cui il livello generale è basso. Che il potere non stia nei palazzi non è una consapevolezza di tutti, ma più che altro bisognerebbe rivedere la nostra strategia da un altro punto di vista. Se è vero che il potere è ovunque e non racchiuso in luoghi simbolo , è anche vero che le contraddizioni di questo sistema sono da ricercare lì dentro, e approfondendole c’è la possibilità di fare crescere la soggettività e la consapevolezza che la lotta è l’unica via. Pensiamo alla questione delle case a Milano. Aler non assegna gli alloggi, i condomini cadono a pezzi e i comitati giustamente occupano le case. Questo lo sappiamo noi, ma per chi ha già una casa i problemi sono altri: le bollette, la morosità, l’isolamento, la mancanza di aiuti dallo stato. Tutte queste persone ci vedono come parte del problema perché scegliamo la scorciatoia, la via più facile, occupare e non pagare. Riuscire a far prendere le responsabilità a chi di dovere, rendere evidenti le operazioni che i nostri nemici portano avanti, portare davanti ai loro palazzi la rabbia della gente è un passaggio a cui non possiamo sottrarci, pena diventare parte del ceto politico che tanto critichiamo. Se le case cadono a pezzi , non è semplicemente dicendo alla gente che bisogna autogestirsi che riusciremo ad arrivare a questo, ci riusciremo piuttosto lottando con queste persone, rendendo evidente che se chi di dovere non ristruttura è perché non ha alcun interesse nel farlo. Dopo la consapevolezza, il passaggio all’autonomia e all’autorganizzazione diventa una possibilità concreta, perché nella lotta saremo riusciti a creare dei legami e a vincere le paure. Superare la tanto discussa questione dei “diritti” è possibile solo dal momento in cui le persone a cui vengono negati si renderanno conto che in un sistema capitalistico non esistono “diritti” perchè ogni cosa è legata al profitto e che quindi l’unico modo per ottenere qualcosa di cui si ha bisogno è la lotta.

Una questione importante riguarda il senso che diamo alle lotte e soprattutto quando si tratta di parlare di vertenze o di “chiedere” qualcosa alle istituzioni. Anche qui il problema è stato sempre posto male, non c’è una lotta di compagni, ma una lotta in cui c’è in gioco la volontà di un territorio, di una popolazione o di una categoria sociale di ottenere qualcosa. Per ottenere questo qualcosa ci sono tre scelte:

A) La lotta dura e pura senza mediazioni, ideologica che non chiede nulla e che in questo testa a testa col nemico si dimentica che ci sono delle persone che hanno tanto da perdere e che non decidono dall’oggi al domani di occupare una casa, una fabbrica, o di andare a rubare al supermercato e molto meno hanno chiaro, al di là del semplice odio di classe, il ruolo dei padroni, degli sbirri o di qualsiasi figura prenda la controparte.

B) La lotta vertenziale tipicamente sindacale, che punta tutto sulla trattativa senza tenere conto ne del rapporto di forza, ne della crescita soggettiva. Pur di ottenere quello che vuole e dimostrare che la propria sigla sindacale, partito o collettivo contano qualcosa, è disposta persino a pacificare una situazione, congelando qualsiasi possibilità rivoluzionaria.

C) La lotta strategica, dove ci si pone il problema della crescita e ogni questione da affrontare è semplice tattica rivoluzionaria. La vertenza si fa se si ha il rapporto di forza e perché vincendo sappiamo che aumenta la consapevolezza e cresce la soggettività, perché in questo modo si rafforza il gruppo e il concetto che “solo la lotta paga” diventa reale. Ogni passaggio è valutato a seconda del contesto e della maturazione politica dei soggetti in causa e non a seconda di quello che per noi è più radicale o meno. Vincere una battaglia in cui si obbliga lo stato a mettere l’acqua a un’occupazione dopo averla tolta è più forte del fatto di attaccarsela da soli. Questo per due motivi, primo perché crea un precedente che serve a tutti quelli che lottano su questa questione e secondo perché dopo aver visto che la lotta paga, la consapevolezza della vittoria cresce e lo stato è costretto ad accettare che davanti a una lotta organizzata e forte non può competere e deve arrendersi. Per questo più che ripetere il ritornello per cui “non si chiede niente allo stato” bisognerebbe interrogarsi a fondo su quando il rapporto di forza è reale e quando si rischia di disperderlo. Se da un lato vediamo un piano locale dove molto spesso i movimenti organizzati riescono a portare delle vittorie, allo stesso tempo vediamo momenti dove quella stessa forza perde di peso e non sa come esprimersi, ad esempio nei casi delle richieste al governo rispetto all’articolo 5 del Piano Casa. Questo dovrebbe suggerirci che il piano politico puro, giocato solo nelle piazze antistanti ai palazzi del governo, è perdente perché trova difficoltà ad abitare realmente un luogo e una lotta. Un quartiere può piegare le volontà dell’amministrazione comunale facendo leva sulla forza espressa dai suoi abitanti. E’ molto difficile abitare un consiglio dei ministri o un decreto legge. La sfida è capire come infrangere questo meccanismo, come poter esprimere una potenza collettiva anche su un piano nazionale senza scadere nella contrattazione sindacale.

Il mondo che vogliamo lo costruiamo ogni giorno avendo cura della potenza materiale e dei rapporti, le battaglie politiche servono per aumentare la consapevolezza e strappare delle vittorie, per guadagnarsi l’impunità e il diritto ad esistere, non perché lo stato ce lo conceda, ma perché con la lotta e il rapporto di forza ce lo siamo guadagnati.
E’ il momento di tornare a chiedersi come fare per raggiungere i nostri obiettivi, mettere davanti la strategia agli impulsi. Se riusciamo a vedere la rivoluzione e la crescita della nostra potenza come un processo le cose ci sembreranno più chiare.

Propaganda e comunicazione nei territori

Partiamo da un handicap gigantesco, i mezzi di comunicazione di massa sono in mano ai nostri nemici e l’informazione che viene prodotta nella maggior parte dei casi è contro ogni ipotesi rivoluzionaria, contro la possibilità che la gente possa organizzarsi.

Parlare il linguaggio della gente non vuol dire tradire le proprie idee, anzi vuol dire coniugare le proprie idee nel territorio in cui si agisce, con l’obiettivo di sviluppare un sentire comune e non quello di portare i nostri contenuti puri, le tavole di noi sacerdoti della rivoluzione. La propaganda non è un affare da politicanti, è cercare di costruire un immaginario che manca. Questo va di pari passo con lo sviluppo della lotta. Ogni lotta porta con sé nuovi cori, nuove frasi, nuove immagini che accendono la gioia e la rabbia. Per sviluppare veramente un linguaggio condiviso non bisogna scendere a compromessi ma semplicemente capire quali sono i punti di partenza, le cose più facili su cui trovarsi e a cominciare dalle quali si possono intessere discorsi rivoluzionari. Ancora una volta qui è in questione la conoscenza dei luoghi e delle dinamiche: ha più senso parlare assieme a un abitante di come il nostro palazzo, quello in cui viviamo tutti assieme stia cadendo a pezzi da anni nell’indifferenza delle varie amministrazioni piuttosto che ripetere ossessivamente che “noi non paghiamo nulla” perché è giusto così. Se smettiamo di pensare a quali sono i contenuti “da compagni” e a quali possono essere invece i discorsi di un quartiere in lotta ci accorgiamo che è possibile sviluppare qualcosa di più, che ci supera e che va oltre noi facendo crescere una dimensione di lotta più ampia.

Condividere e mettere in comune dei saperi nel campo della comunicazione significa produrre un nuovo linguaggio fatto non solo d’immagini, di manifesti e di frasi, ma anche di gesti. Destabilizzare l’egemonia culturale e creare un nuovo immaginario ci permette di dare forza e consistenza al mondo che vogliamo costruire e che deve essere il mondo di tutti, in cui tutti si riconoscono perché ne va della nostra quotidianità, della nostra felicità e della nostra vita.

Disattivare la contro-insurrezione

In tutti questi anni abbiamo subito innumerevoli attacchi da parte della polizia e della magistratura che in difesa dello stato avviavano inchieste, elaboravano loschi teoremi giudiziari e colpivano tanti compagni generosi che si spendevano nelle lotte. Allo stesso modo hanno attaccato gli spazi che abbiamo sottratto all’abbandono e al degrado, i luoghi in cui abbiamo sperimentato un modo diverso di intendere le relazioni, gli affetti, la lotta e la vita. Spazi dove la solidarietà e l’autorganizzazione prendevano il posto della solitudine e dell’egoismo.

Ci hanno colpito per impedire la contaminazione, per evitare dei possibili che si aprivano, per evitare che prendessimo più forza, costringendoci sulla difensiva, facendoci combattere una guerra di logoramento. Questo perché ci obbligano a porci su un piano militare che in mancanza di una forza capace di mettere in discussione l’attacco subito, svelando il vero obiettivo dello stato e cioè impedire l’organizzazione al di fuori delle dinamiche del capitale, ci ha fatto retrocedere invece che avanzare, tornare spesso a rincominciare da capo.

La contro-insurrezione agisce non tanto per punire, ma piuttosto per prevenire, per imporre il proprio governo sui corpi e sulle menti. Si muove invisibilmente tra le aule delle scuole e i corridoi delle università, tra i cortili dei quartieri popolari e i reparti delle fabbriche. Ciò che ora non è possibile, è merito della contro-insurrezione. Questa agisce dividendo, ricattando, imponendo l’egemonia culturale dello stato attraverso l’uso massiccio dei mezzi di comunicazione e di una tecnica di polizia che fa di ogni cittadino un agente non retribuito del capitale. In questo modo ci hanno isolato dal contesto generale, dal resto del mondo, ci hanno reso delle caricature di noi stessi togliendoci il terreno su cui potevamo camminare.

Se in questi anni siamo stati i protagonisti e i destinatari di tante delle operazioni politiche della contro-insurrezione non è perché eravamo forti, ma perché la nostra strategia era debole e le nostre barricate non erano solide, ma sopratutto perché abbiamo permesso ai nostri nemici di prosciugarci il mare dove potevamo nuotare. Dobbiamo partire da qui, da ciò che non è stato e poteva essere, da ciò che c’è già per cercare di impedire che possa essere distrutto.

E’ arrivato il momento di non cadere più nella trappola, nell’auto isolamento in nome di qualche principio o ideologia che fa però fatica a radicarsi e a diventare desiderabile. Dobbiamo riprendere la rotta, mettendo al centro non solo i desideri, i sogni, ma anche una strategia in cui essi si possano realizzare. Sopratutto dobbiamo immergerci nel mare delle contraddizioni che ogni territorio o ambito di lotta ha, perché prima di qualsiasi battaglia politica, prima dello sviluppo di un piano di consistenza comune, ci sono le barriere della diffidenza, del linguaggio e del sentire che sono da abbattere.

Se riusciamo a fare parte di un territorio, se costruiamo delle relazioni e dei rapporti di fiducia, se diamo un senso agli spazi che viviamo e attraversiamo, se mettiamo in comune saperi e esperienze, affrontando insieme le problematiche e trovando delle risposte, riusciremo a sviluppare gli anticorpi alla contro-insurrezione. Non perché riusciremo ad evitarla, esiste una guerra civile e in questa prendiamo parte, ma perché non riuscendo ad ottenere il proprio obiettivo attraverso la repressione, la contro-insurrezione perde la propria essenza e quindi si disattiva.

L’ unico modo che abbiamo per distruggere la frustrazione e l’impotenza accumulata da anni di sconfitte e strategie contro-insurrezionali vincenti, è quella di cominciare qui e subito a costruire una potenza reale che si nutra delle relazioni e delle azioni che riusciamo a intessere ogni giorno, all’interno del territorio in cui scegliamo di muoverci perché la rivoluzione non sia più un sogno di pochi, ma diventi un’ esigenza collettiva.

Non un’isola felice ma una comunità in lotta

La forza di una comunità in lotta è data dal grado di coinvolgimento dei suoi membri, di chi vive quel territorio, sia questo un’ università, una fabbrica, una valle, un quartiere, una frontiera e dalla forza collettiva che permette di affrontare e superare insieme le paure, di crescere perché è in gioco il senso che diamo alla nostra vita e a quella degli altri. Connettersi, contaminarsi, mettere in relazioni esperienze diverse. Condividere a livello locale, nazionale, europeo e globale ciò che caratterizza la nostra lotta, quello che abbiamo imparato sul territorio, mettere a disposizione mezzi per far crescere altre comuni. L’egemonia, se di questa bisogna parlare, non riguarda un gruppo di potere, ma una potenza collettiva, un modo di abitare il mondo, un modello culturale dal basso.

Una comunità che si pone come obiettivo quello di costruire un modo diverso di vivere e di abitare un territorio, se si pone in un orizzonte di allargamento, non può che essere conflittuale, perché in rottura con il modello culturale egemone. La città si espande, si trasforma, il capitalismo si ristruttura e ogni cosa al suo interno viene trasformata se non è capace di dotarsi di mezzi materiali, di un’organizzazione pratica di difesa e attacco e di una produzione infinita di saperi e immaginario capace di delineare una geografia diversa in grado di rendere un territorio impenetrabile da qualunque strategia di recupero governativo. I nostri mezzi, la nostra produzione di saperi e immaginario e la nostra forza difensiva e offensiva devono agire in modo armonioso.

Pensare il conflitto come strada necessaria per far avanzare la rivoluzione, partendo dal rapporto di forza e dalla consapevolezza collettiva della battaglia che si combatte. Non esiste qualcosa di giusto o sbagliato in assoluto, ma un modo di agire che può nuocere al nemico, farlo retrocedere, coinvolgere il territorio. Chi non tiene conto del contesto, della maturazione politica e dei rapporti di forza è condannato a combattere una battaglia che è persa di partenza perché strategicamente debole e politicamente insostenibile.

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I tempi che stiamo vivendo sono tempi difficili, il capitale attacca a 360 gradi i movimenti e le conquiste vinte con il sudore e con il sangue di chi ha lottato nel passato. Gli scenari che ci troviamo davanti sono sconcertanti, basti pensare alla guerra tra poveri dilagante, al razzismo, alla risposta dei lavoratori e degli studenti agli attacchi del governo. Tutto questo ci racconta di anni di separazione e desolazione. I vuoti sono tanti e sicuramente non è dovere del governo o dei padroni rendere desiderabile la lotta e il cambiamento alla gente. E’ invece compito nostro e possiamo dirci con tutta tranquillità che anche in questo siamo ancora carenti poiché siamo i primi a non prenderci cura del mondo che vogliamo costruire e della strategia che ci permette di avanzare.
Le possibilità ci sono, bisogna coglierle, tornare a chiederci cosa intendiamo per vittoria. Cambiare rotta e riprendere a navigare. Non ci sono manuali, ne si può trapiantare un’esperienza su un altro territorio, questo perché ognuno di questi ha le proprie caratteristiche, i propri ritmi e le proprie dinamiche. Si può invece, ed è auspicabile farlo, prendere spunti e cogliere sfaccettature differenti da ogni esperienza di lotta, per quanto lontana essa possa sembrare.

Questo testo nasce da un’esperienza comune, vissuta sul territorio Milanese e non solo, dopo anni di lotte, vittorie e sconfitte, di gioie e delusioni, siamo tornati a mettere in discussione la nostra strategia e a reindirizzare il nostro agire. Continueremo a viaggiare e a imparare da tutto ciò che è in movimento e da chi si interroga su come crescere, su come avanzare. Questo è un contributo destinato a tutti: ai pessimisti e a chi ci crede ancora. Abitare e lottare in un territorio vuol dire vivere già un mondo nuovo.
Ci vediamo sulle barricate.

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