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Parigi: polizia armata in corteo. Orizzonti di guerra permanente

Sono vere le notizie che circolano da qualche giorno.
Le conferme arrivano dai compagni francesi e dai loro siti di controinformazione.
 
A Parigi l’estrema destra della polizia francese sta organizzando quotidiani cortei non-autorizzati di massa, per protestare contro le politiche governative, secondo loro troppo morbide e permissive nei confronti dei manifestanti, e rivendicare le violenze subite in piazza in questi mesi di conflitto sociale.
Durante questi raduni – per di più, nel caso della polizia, illegali durante il servizio – i difensori della legge ostentano armi da fuoco automatiche, giubbotti anti-proiettile, manganelli. Molti di loro hanno il volto travisato da passamontagna, maschere e cappucci.
 
A pochi mesi dalle elezioni i gruppi “autonomi” di polizia, apertamente appoggiati dal Front Nazional, rivendicano genericamente maggiore libertà di azione ed equipaggiamenti aggiornati. Che tradotto vuol dire il diritto di uccidere, un’ancora più totale impunità dalla legge, e armi militari impiegate nell’ordine pubblico. 
 
Gli “indignados” in divisa sono stanchi dopo mesi di scontri e violenza per difendere nelle strade il governo, attaccato da ogni parte dalle forze rivoluzionarie e anticapitaliste, si trovano a protestare contro lo stesso governo: dopo aver stracciato ogni tutela sociale per la classe operaia francese, Hollande dovrebbe anche garantire il totale annientamento delle forze politiche che si ribellano a quelle scelte, concedendo alla polizia una libertà d’azione 
 
In pratica quello che viene domandato è una legittimazione – nuova e definitiva – della violenza repressiva come unico strumento reale di governo, volta al controllo della popolazione, che lentamente si sta immunizzando dai narcotici sociali per riprendersi, con la partecipazione alle lotte, fette notevoli di autonomia. 
Che sia Hollande o il prossimo governo nazista di FN ad accontentare la polizia, che questa sia la via maestra è dimostrato dall’evolversi dei fatti in questa caldissima annata francese, che sta contribuendo in misura notevole a smascherare – stavolta, forse definitivamente – la faccia oscura del capitalismo, la reale funzione del governo, la verità sulla sostanza dei rapporti di potere e sulla natura della guerra in atto. 
 
Intanto, i compagni che provano a opporsi ai cortei della polizia. Subiscono minacce, intimidazioni, sequestri fisici da parte di cordoni armati di sbirri. 
Questo il racconto di una giornata parigina sempre più tristemente tipica.
 
http://www.osservatoriorepressione.info/16901-2/

Questo avviene oggi, nel cuore dell’Europa.
La guerra permanente condotta dai governi e dalle agenzie internazionali contro il “terrorismo” (genericamente), assume chiaramente i tratti di una guerriglia interna condotta contro la propria popolazione civile per mantenerla in un costante stato di paura e inazione, favorevole al “corretto e costante sviluppo dell’economia”, il nostro dio supremo al quale sacrificare i corpi di migliaia di INADATTI; RIBELLI; EMARGINATI.  In questa epoca di mercato globale anche il terrore assume dimensione globale, e la repressione poliziesca viene normalizzata a livello sovranazionale, come principio ispiratore di tutte le nazioni e le società. 

 
E’ così che, mentre la polizia a Parigi minaccia il colpo di stato per rovesciare Hollande, pochi chilometri più a nord, a Calais, milleduecento dei loro colleghi al segnale del governo iniziano la distruzione della jungle e la deportazione di massa dei suoi diecimila abitanti. 
Questi due fatti, che appaiono incoerenti e lontani, sono invece accomunati dal loro obiettivo reale: determinare il risultato delle prossime elezioni, in cui il democraticismo ipocrita del PS se la giocherà all’ultimo sangue con i nazisti del Front National. L’uno deve mostrare di essere un vero francese cacciando i negri dal confine, l’altro di essere il vero garante della sicurezza nazionale. Sono gli effetti di una guerra intestina al sistema partitico, gli alleati politici del capitale che si spartiscono i pezzi della preda per i prossimi anni: la preda, naturalmente, sono i lavoratori francesi, i migranti, in una parola, le persone che a questo gioco non partecipano, per impossibilità o per scelta. 
 
E’ tempo di una presa di coscienza generale. Quello che accade oggi in Francia è stato definito come “laboratorio sociale di repressione”: un terreno per sperimentare in un paese europeo le forme di controllo sociale (militarizzazione in primis) già sperimentate altrove nel mondo. Ciò che avviene adesso in Francia, presto sarà replicato in tutti i paesi in cui saranno applicate pienamente le strategie neoliberiste. 
 
>>> L’appello apparso su paris-luttes.info:


“Ai nostri amici che non ripudiano la repubblica e i suoi valori, pensate ancora che questi poliziotti siano “repubblicani” nel momento in cui chiedono una separazione dei poteri meno rigida, ovvero attaccano una delle basi teoriche più importanti del sistema politico attuale?

A tutti i nostri amici, è evidente che non abbiamo saputo reagire collettivamente. D’altra parte, come rispondere a queste manifestazioni selvagge e armate? Ecco una domanda a cui dovremo confrontarci collettivamente.

Dobbiamo riportare il dibattito verso lo stato d’emergenza, i suoi abusi, la sua inutilità, e verso la polizia, i suoi metodi, le sue armi, la sua impunità.

Perché sono pochi gli sbirri che capiscono che la violenza e l’odio che ricevono quotidianamente (e contro cui manifestano) sono solo il risultato delle loro azioni, della loro impunità. E’ l’unico corpo professionale a ricevere semplici sanzioni amministrative nel momento in cui si permettono di mutilare, accecare e uccidere la gente.

Se un professore alza le mani su un alunno, sono guai. Ma morire in un commissariato invece sembra non essere un problema. Fino a che non capiranno che questa impunità è l’unica fonte delle loro preoccupazioni, il problema persisterà.

Il compito che abbiamo di fronte a noi in questo momento è pesante, e quello che stiamo vedendo negli ultimi giorni nelle strade di Parigi potrebbe essere solo un esempio di ciò che vivremo nei prossimi anni, rischiando di abituarcene.

La Francia sta diventando un laboratorio sociale di repressione.

Le ragioni per combattere non mancano.

Organizziamoci, questa volta muti proprio non possiamo restare.”

Calais: Appello alla mobilitazione contro gli sgomberi imminenti

[di Calais Migrant Solidarity]

L’imminente distruzione della jungle e la dispersione di massa forzata di persone provenienti da Calais non sono fatti isolati. Essi fanno parte di una più ampia strategia del governo francese, che lavora in tandem con altri governi per segregare, attraverso la violenza, le persone con i documenti da quelle senza documenti, il bianco e l’altro, il ricco e il povero; per bloccare le persone nei campi, nei centri di deportazione, e nelle prigioni, per costringere le persone a tornare in paesi in cui rischiano ulteriore prigionia e morte.

Il governo prianifica di fingere di dare alle persone una scelta: salire su autobus diretto verso i centri di accoglienza temporanea (CAO – centri di accoglienza) o essere espulsi dalla Francia (con un decreto OQTF). Inoltre, ci sono state deportazioni (giustificate dal Trattato di Dublino) dai CAO e non ci sono garanzie che esse cesseranno di avvenire. Alcune persone che hanno le impronte digitali in altri paesi europei, come l’Italia, sono espulsi li. Da tutti i paesi europei, i migranti sono deportati più indietro in gran numero, anche nei paesi di provenienza.

Ora sono aumentati gli arresti, alle persone viene impedito l’accesso alle stazioni ferroviarie in base al colore della loro pelle. La polizia di Calais ha ordine di eseguire almeno 80 arresti al giorno e il maggior numero possibile di deportazioni. Questo fa parte dell’operazione di sgombero. Le persone vengono catturate in massa, e il centro di espulsione a Calais è in fase di espansione.

Alcune associazioni umanitarie che lavorano nella jungle stanno collaborando a stretto contatto con il governo: invocano sgomberi «umani» o «più sicuri». Non esistono sgomberi umani! Non ci sono sgomberi sicuri!

A chi porta beneficio questa soluzione? Non a chi rischia l’espulsione, non a quelli che vogliono andare nel Regno Unito, non ai francesi oppressi dalla macchina del capitalismo, per i quali il governo non ha la pretesa di fornire alloggi sia. Godono le agende dei politici, in attesa delle elezioni. Godono le multinazionali che fanno profitti miliardari da operazioni di sgombero di massa e progetti di militarizzazione dei territori, a Calais, e altrove.

Quando avvengono sgomberi le persone sono costrette in ulteriore precarietà ed esposte a un maggiore pericolo. Se accade come previsto, ci sarà la violenza dalla polizia, e coloro che tenteranno di rimanere nella zona dovranno trovare un altro posto per dormire. Coloro che cercano questo si troveranno ad affrontare un rischio di espulsione, che la polizia eseguirà con chiunque non entri in “Accoglienza”.

Con più recinti e filo spinato, le persone cercano modi più pericolosi per attraversare le frontiere. Ci sono stati 15 morti noti al confine qui a Calais, nel solo 2016.

Le politiche oppressive di confine non sono isolate a Calais. La lotta contro le frontiere e lo spettacolo della solidarietà per coloro che sono oppressi non sono isolati a Calais. Mentre la polizia si prepara ad aumentare ancora la repressione di migranti e solidali, le persone si preparano a lottare contro l’oppressione in vari luoghi. Ci sono stati appelli in tutta la Francia per mostrare solidarietà a coloro che devono affrontare lo sgombero a Calais e combattere le società che traggono profitto qui. Questo è l’appello da Calais per voi, per combattere il meccanismo di confine nei luoghi in cui vi trovate.

Questo non significa che non si debba venire a Calais. Se siete stati qui prima, siete piuttosto autonomi e avere un’idea chiara di ciò che si vorrebbe fare, ci saranno persone che potrebbero avere bisogno di supporto durante e dopo gli sgomberi.

Se non siete mai stati a Calais prima, avete bisogno di un sacco di informazioni sulla situazione, e non avete una buona idea di ciò che si vorrebbe fare per portare solidarietà attiva a sostegno delle persone che vengono sgomberate e di fronte alla violenza del confine, ora può essere un momento difficile per arrivare.

  • Invitiamo le persone a fornire soluzioni abitative dignitose e spazi accoglienti nelle loro città perché molte persone che vivono nella jungle lasceranno Calais!
  • Chiediamo azioni decentrate nelle città contro le società che traggono profitto dalla miseria umana!
  • Chiediamo la distruzione delle prigioni e dei centri di espulsione in tutta Europa!
  • Chiediamo la solidarietà nella lotta contro il confine!

15 ottobre 2016

CMS – Calais Migrant Solidarity

[Appello in francese: 
https://calaismigrantsolidarity.wordpress.com/2016/10/15/call-out-against-the-coming-evictions/]

Deportazioni, torture e rastrellamenti: l’Italia in prima linea

Idomeni. Calais. Lampedusa. Ventimiglia: in questi ed altri luoghi di confine sono attualmente bloccate migliaia di persone, profughi e migranti in fuga da guerre, torture, sofferenze, povertà. La Grecia, che, in virtù degli accordi stipulati tra Europa e Turchia di Erdogan, deporta verso i campi di concentramento della Turchia; la Francia, che disperde i migranti assiepati a Calais in centri isolati nelle campagne; l’Italia che riempe pullman privati e aerei delle Poste italiane di migranti portandoli negli hotspot o nei c.i.e. italiani al fine di identificarli e ributtarli in strada come clandestini.

E’ questo l’agghiacciante scenario europeo fatto di frontiere militarizzate, campi di concentramento, rastrellamenti, torture, deportazioni. Ma soffermiamoci sulla situazione italiana, che proprio in questi ultimi giorni si è resa protagonista di violenze e discriminazioni. Qualche giorno fa Ioculano, il sindaco di Ventimiglia, ha ordinato lo sgombero dell’accampamento provvisorio sul fiume Roja, schierando un enorme dispositivo di forze dell’ordine per catturare e deportare i migranti in attesa di passare il confine. Lo sgombero non è stato effettuato poiché questi hanno deciso di proteggersi, spostandosi. In quelle ore di tensione la repressione non ha colpito solo i migranti, ma anche le persone generose accorse in loro solidarietà, a cui sono stati notificate denunce e fogli di via, mentre pullman e aerei attendevano di essere riempiti, mentre nelle stazioni dei treni di Genova venivano effettuati controlli e rastrellamenti ai danni di persone di colore che cercavano di raggiungere il confine.

La domanda, retorica, che ci viene in primis da fare è: queste persone in fuga da guerre e situazioni di miseria create da decenni di devastazioni e sfruttamento da parte dei paesi europei, cosa dovrebbero fare? Immaginatevi di dover scappare da bombe e torture, dal Boko Haram, attraversare deserti, finire nelle carceri della Libia, scampare alla furia del Mediterraneo su barconi di fortuna che troppo spesso affondano, perdere la famiglia, amici, guardare gli occhi di chi affoga ed essere salvi per miracolo. E poi arrivare quasi a destinazione e, stanchi, bussare alle porte delle Fortezza Europa. E di nuovo essere repressi, incarcerati, torturati, manganellati, deportati contro la propria volontà in luoghi distanti, che azzerano i preziosi chilometri guadagnati. E poi vagare in terre sconosciute con l’etichetta di irregolare, di clandestino. E magari, alla fine, morire a pochi passi dalla meta, soffocati dentro un camion che varca la Manica.

Subito dopo gli attentati di Parigi ci è stato detto che la guerra era arrivata a casa nostra, che si apriva un fronte interno alla Fortezza Europa della guerra endemica che imperversa in due terzi del pianeta; bene gli atti di rastrellamento, deportazione e tortura inflitti dalla polizia italiana e dai militari dell’esercito a Ventimiglia come altrove sono palesemente parte di questa guerra in corso sotto i nostri occhi. E’ la guerra di cui il capitalismo si nutre giorno per giorno, distruggendo tutto ciò che incontra. Chi semina vento raccoglie tempesta e violenza chiama violenza, per cui inevitabilmente chi oggi rastrella, deporta, tortura, domani non potrà che ricevere la stessa moneta in cambio. E’ ipocrita e antistorico scandalizzarsi; ed è ridicolo appellarsi alla difesa della “nostra” libertà, negata così sfacciatamente a milioni di persone.

Un’importante pensatrice del secolo scorso, Hannah Arendt, assistendo nel 1960 al processo contro alcuni dei principali responsabili delle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento, e quindi del relativo genocidio, parlò di “banalità del male”, ovvero del fatto che questi signori che si difendevano dicendo che negli anni del nazismo si erano limitati a fare il loro lavoro, obbedendo agli ordini dei superiori, non fossero dei mostri o dei pazzi, ma delle persone normali, degli impiegati di una catena di montaggio parte di una enorme fabbrica, che si erano semplicemente piegate alla banalità e alla normalità della vita e del lavoro che gli erano stati imposti dalla società dell’epoca.

La storia oggi si ripete: quando sono gli aerei col marchio rassicurante delle Poste italiane a deportare persone; quando sono sindaci di piccole località che emettono ordinanze dalle ricadute così pesanti sul destino delle persone; quando sono le cosiddette forze dell’ordine che applicano retate basate su una palese discriminazione razziale; è in momenti storici come questo che si avverte l’urgenza di non poter più stare a a guardare senza aspettare che un giorno ti vengano a chiedere perché avevi assistito senza intervenire. Davanti a un mondo così complesso, a situazioni così urgenti e pericolose, a scenari così agghiaccianti, crediamo che chiunque debba con i propri mezzi provare ad inceppare questo meccanismo di sofferenza e morte. E questo non per mera solidarietà o umanitarismo verso i dannati della terra, ma perché quanto sta accadendo riguarda tutti. La restrizione delle libertà che oggi si concentra su migranti e profughi sta già stringendo il cerchio su tutti.
In Francia se ne sono accorti.

La rete No Borders lotta contro le politiche della fortezza Europa, contro il capitalismo, in solidarietà ai migranti e per la libertà di movimento per tutti. La lotta ha bisogno di energie e contributi, organizzati con noi.

Assemblea ogni martedì ore 19 presso Pellicceria Occupata, a metà di via San Luca, Genova.

Rete NoBorders Genova

retenobordersgenova@autistici.org

PER FARLA FINITA CON L’IDEA DI SINISTRA PER SUPERARE IL NON-MOVIMENTO.

da Autonomia Diffusa Ovunque – 3 giugno 2016
Sala ha vinto le primarie, come ha vinto Expo, così come sta vincendo il partito della nazione, un progetto politico che mira ad unire le personalità e i gruppi di potere progressisti e dinamici dell’Italia sotto la bandiera del nuovo partito del neo-liberalismo italiano, il PD. Le conseguenze su larga scala le stiamo vedendo con l’eliminazione degli ultimi residui di welfare sociale, con una zona di indistinzione sempre più palese tra politica, polizia e magistratura, con il governo dei commissariamenti che attuano di fatto gli interessi di una classe politica ed economica che cerca di mantenere i propri privilegi sulla pelle di tutti.
Chi sta dall’altra parte della barricata, chi dal basso cerca un cambiamento reale, dove si posiziona in questo momento? C’è bisogno di autocritica e di cambiamenti radicali per poter fare piazza pulita degli errori collettivi fatti negli ultimi decenni, e per dissipare la confusione generale di un non-movimento disgregato in parrocchie impegnate più a mantenere la propria schiera di fedeli in disfacimento che a costruire comunità, pensieri e pratiche di autodeterminazione e un immaginario rivoluzionario.
Il Primo Maggio milanese ha segnato un momento di rottura e dopo un anno bisogna riflettere sul divenire: non tanto per trovare colpevoli o innocenti, né tanto meno per misurare i muscoli, ma per trovare alla radice il problema di un fallimento collettivo nato tanto tempo addietro. Lo smarrimento generale dopo la Mayday del 2015 ha solo mostrato l’inconsistenza di un modo di concepire la lotta privo di idee, proposte e pratiche di cambiamento reali, poco coraggioso e troppo ingenuo, debole credendosi furbo, poco proletario e molto borghese. Un movimento non si sviluppa né muore in quattro incroci e quattro vie vittima di qualche vetrina rotta e qualche macchina incendiata. Il primo maggio non è stato ne l’inizio né la fine di qualcosa, ma l’affermazione di una debolezza e di una contraddizione collettiva. Soffiamo su queste ceneri, e ci apparirà sotto un mondo che palpita.
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Perché un non-movimento?

Un movimento è l’espressione dei percorsi, delle lotte, del conflitto locale e nazionale. Un movimento ragiona in termini di avanzamento e non di auto-rappresentanza, mette insieme esperienze, risorse, idee, ipotesi e le mette in pratica. Ma soprattutto questi percorsi dovrebbero avere una prospettiva territoriale, essere in grado di far nascere forme di vita e di creare una forza collettiva che agisce nel territorio in termini di costruzione di comunità solidali e conflittuali. Questo vuol dire gettarsi nella mischia a partire dai luoghi in cui siamo, ascoltare e discutere in modo orizzontale e collettivo, rompere le barriere della diffidenza e della paura. Non pensare a sé stessi ma alla potenza comune di un movimento rivoluzionario.
I movimenti di lotta per la casa degli ultimi anni, nonostante abbiano portato in piazza o davanti ai picchetti contro sfratti e sgomberi migliaia di persone, nella maggior parte migranti, nonostante in certe occasioni fossero dei veri e propri movimenti di massa, ora si trovano intrappolati tra la debolezza della prospettiva collettiva e l’accelerazione sfrenata a livello legislativo e repressivo, che se non impediscono di certo riducono di tanto la riproducibilità di pratiche di massa come l’occupazione e addirittura colpiscono con leggi come l’art.5 le fondamenta di una vita in lotta. Di pari passo c’è la difficoltà di inserire percorsi di riappropriazione nel tessuto territoriale e di rompere le barriere tra occupanti e non occupanti, tra italiani e stranieri.
Pensiamo all’eccezionale lotta che i facchini combattono davanti a centinaia di stabilimenti e magazzini. A parte la partecipazione e la solidarietà espressa da tanti compagni generosi, quel blocco conflittuale e di classe non fa parte di quello che si intende tradizionalmente come movimento. Nonostante ciò la questione dell’agibilità e del rapporto di forza è la regola in tanti magazzini e stabilimenti della logistica dove centinaia di lavoratori iscritti al Si Cobas esprimono una resistenza ed un attacco che mettono in difficoltà le politiche criminali delle aziende a volte superando il sindacato stesso.
Allo stesso modo tanti occupanti di casa e sfrattati fanno fatica a comprendere l’agenda di movimento, soprattutto quando manca quel sentire comune che permette di agire come forza collettiva e non come atomi disgregati. E’ anche successo che si chiedesse una moratoria degli spazi sociali e non degli sfratti e degli sgomberi palesando di fatto una separazione tra un ambito di lotta e uno spazio di auto-riproduzione. Quando questa separazione invece si riduce, la contaminazione e l’amicizia creata nella lotta permettono lo svilupparsi di tutt’altre prospettive.
E poi ci sono i sindacati protesi più ai numeri degli iscritti che alla potenza collettiva, più alla vertenza che a preservare l’autonomia conquistata. Accordi su accordi, giochi di potere interni e una competizione infinita tra sigle ci descrivono un panorama sindacale disgregato e incapace di creare avanzamento al di fuori della rappresentanza e dell’auto-celebrazione.
Detto ciò, tutti i settori si trovano a dover subire forti attacchi da parte del governo intenzionato ad eliminare ogni forma di dissenso che metta in pericolo gli interessi e gli affari del partito della nazione. Davanti a questi attacchi non c’è un movimento di studenti, operai, migranti, occupanti, sindacati o assemblee di quartiere che si mobilitano compatte, così come non c’era durante la riforma del lavoro, della scuola e delle pensioni.
Gli errori sono normali. Nessuno ha la già una ricetta pronta a meno di non essere abbastanza umili o sinceri con sé stessi. Fraintendimenti e scazzi, se si è nell’ottica di una potenza collettiva, andrebbero risolti nelle sedi adeguate lontane dagli occhi dei nostri nemici, a costo di pigliarci a sediate e di creare rotture, per avanzare nelle possibilità rivoluzionarie che sono in gioco, non guardando alle nostre identità politiche, ai nostri calcoli e ai nostri egoismi.
Il non-movimento invece può permettersi di prescindere da necessità etiche e strategiche, non ponendosi il problema della solidarietà davanti alla repressione, perché la solidarietà si dà solo ai propri amici, anche se di mezzo ci va l’agibilità di tutti (e la vita di alcuni). Forse allora il problema non è il movimento, ma la sua assenza. Bisogna ripartire da questo vuoto e questa assenza, rimettendosi in discussione e sciogliendosi nel movimento reale, quello che può abolire per davvero lo stato di cose presenti. Per questo è fondamentale stare in mezzo alle contraddizioni per capirle e superarle. I rivoluzionari oggi devono avere la capacità di trovarsi nel luogo giusto al momento giusto.
Abbiamo bisogno di comunità di quartiere, di gruppi di studenti, di lavoratori combattivi, di migranti in lotta: forme collettive reali che si pongono la questione dell’auto-organizzarsi, la questione della vita a partire dalla lotta che portano avanti. Quello che non serve più sono i contenitori politici, sigle vuote ed esclusivamente rappresentative, i centri sociali che rappresentano se stessi e che al massimo soffocano le istanze politiche in dinamiche identitarie parrocchiali, i maestri di radicalismo tutti tesi a seguire le proprie pulsioni soggettive.
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Dicotomia movimenti-istituzioni, forza popolare-governo.

Torniamo indietro di 5 anni, a Milano, quando Pisapia era l’anti Moratti, la nuova speranza per la sinistra cittadina. Quando il movimento milanese era diviso tra chi non ne voleva sapere niente della politica istituzionale e chi invece era in attesa di quella “vittoria” che mettesse fuori gioco la destra che da anni governava Milano. Qualcuno la poteva chiamare ai tempi strategia, ma il problema è sempre la stessa modalità ambigua e confusa di confondere il patrimonio delle lotte dal basso con ciò che si decide nei piani superiori, come se Pisapia fosse stato il risultato di anni di lotte che in quel momento si stessero ponendo la questione della rappresentanza e del governo. C’è chi crede in questo percorso politico e prende ispirazione cercando ridicolamente di replicare in Italia le esperienze dei governi di sinistra dell’America Latina o di Siryza in Grecia o di Podemos in Spagna.
L’appartenenza ai residui di un’ideologia, più che la ricerca di pratiche rivoluzionarie e emancipatrici ha fatto in modo che tanti non riuscissero a vedere i limiti di questi modelli. Abbiamo visto in America Latina la distanza che si è venuta a creare negli anni tra la classe dirigente e la base militante, il tradimento dei governi nei confronti dei movimenti indigeni e sociali. Perché in mancanza di idee su come creare un mondo nuovo, di cosa farcene della potenza e della forza materiale autonoma accumulata nei territori, la questione del governo prende sempre il posto della rivoluzione e in Latino America a parte le esperienze collettive di riappropriazione, di autogoverno e autogestione dei territori dei vari movimenti indigeni, rurali e urbani, dai piani alti non si è mai vista nessuna proposta che mettesse in discussione il modello neo liberalista di sviluppo capitalista. La politica dell’estrattivismo petrolifero e minerario e dello sfruttamento delle risorse naturali è ancora oggi il modello di vita che i governi progressisti propongono come alternativa al mondo vecchio. In nome dello sviluppo la “Pachamama” [1] è stata violentata e calpestata nonostante fosse il pilastro delle nuove costituzioni andine e chi ha osato sfidare i governi per difenderla è stato duramente represso e in alcuni casi accusato addirittura di terrorismo.
La stessa cosa l’abbiamo vista in Grecia dopo la vittoria di Tsipras, una dirigenza politica che addirittura butta nell’immondizia la forza di un “No” collettivo per cedere ai poteri forti, dopo aver pacificato e frammentato quella forza che si era creata nelle lotte, nelle piazze, nelle fabbriche, nelle università, nelle scuole e nei quartieri della Grecia con la scusa del cambiamento. Ora qualcuno vorrà aspettare di vedere cosa combina Podemos. Ma forse qui non si tratta di tradimento. E’ necessario capire effettivamente di cosa parliamo quando diciamo “sinistra”. Cominciamo a considerare come la politica, nell’accezione moderna, designi sostanzialmente un ambito di gestione di un sistema economico e sociale inamovibile. Il capitalismo ha da un lato le sue strutture economiche (lavoro, valore, merce, denaro) e dall’altro ciò che è necessario al suo funzionamento e ad una riproduzione dinamica (governo, diritto, esercito, polizia), che nell’accezione comune si chiama politica. L’idea di sinistra per quanto voglia attaccare il capitalismo non rompe mai questo schema. Cerca spasmodicamente una gestione “alternativa” di un sistema del quale non mette in questione le fondamenta. Non vuole rompere con il lavoro salariato, il mondo della merce, del valore o del denaro, con il Mercato, il Partito o lo Stato, che spaccia come “orizzonti insuperabili” (quando dovremmo ricordarci che esistono da non più di qualche secolo).
Forse il problema è qui, ogni volta che sono scoppiate delle rivolte incontrollabili in giro per il mondo, la rappresentanza ha aperto la strada alla pace sociale e ha disgregato in mille particelle quella rabbia e quella massa di persone che erano state capaci di mettere in questione un intero modo di vivere. Con il voto si smette di pensare collettivamente come si fa quando bisogna organizzare un’assemblea, uno sciopero, una barricata, un’azione e torniamo ad essere individui soli. Si elimina un tiranno e si invita i rivoltosi a tornare a casa davanti alla TV per poi andare alle urne a votare il prossimo politico , la nuova maschera sopra il vecchio cadavere.
E’ la lotta a permettere ciò che prima sembrava impossibile, il buttarsi nelle contraddizioni, il lavoro di base quotidiano, quel lavoro che crea teoria, immaginario e apre delle possibilità. La potenza cresce quando smettiamo di essere spettatori del nostro destino e decidiamo di essere protagonisti. La catastrofe si trasforma in possibilità quando si trova un contatto con il mondo, quando ci accorgiamo di non essere soli e che il cambiamento può partire solo da ciò che dal basso riusciamo a costruire per rovesciare il mondo di sopra.
Quindi la domanda è: ci interessa costruire dei territori in grado di organizzarsi e autogovernarsi o avere dei territori da governare? Ci interessa porci il problema di come creare forme di vita rivoluzionarie o elettori disposti a salire sul carrozzone della speranza? Vogliamo forse una Repubblica socialista, un Capitalismo verde o di Stato, un auto-sfruttamento gestito collettivamente? O cerchiamo piuttosto un auto-organizzazione delle nostre vite, uno sviluppo autonomo dei nostri mondi?

Milano tra promesse tradite e rappresentanza borghese.

Dove sono rimaste le promesse della giunta arancione e quanto il movimento è stato rallentato da chi aveva i piedi in due scarpe? Abbiamo visto la politica sociale dell’alternativa al PD a Palazzo Marino. Il conto degli spazi sociali sgomberati lo abbiamo perso, gli sfratti e gli sgomberi di famiglie sono aumentati. Nella memoria collettiva rimarrà impresso quel tentativo di sgomberare 200 famiglie in nome di Expo nel novembre del 2014 e lo vediamo oggi con il piano regionale che smantellerà definitivamente l’edilizia pubblica o con i piani di intervento nelle periferie.
Un esempio della confusione che regna sono i piani speculativi che il governo cittadino e regionale hanno sul quartiere Giambellino. Rappresentanti di associazioni e di progetti finanziati dalle istituzioni (e quindi ricattabili) che siedono a tavoli con rappresentanti del governo locale e prendono decisioni al posto degli abitanti del quartiere. Associazioni e personaggi con i piedi in due scarpe che arrivano a fare patti con Renzo Piano spacciandoli per riqualificazione partecipata e dal basso.
Nella storia i movimenti si sono posti sempre il problema del rapporto con le istituzioni e con i governi. Quando si picchetta davanti a una fabbrica lo si fa per ottenere degli obiettivi che a volte passano per dei tavoli di trattativa, lo stesso fanno a volte i movimenti di lotta per la casa, ma ciò ha senso se si punta sempre a mettere davanti il rapporto di forza e a preservare l’autonomia conquistata con la lotta. Quell’autonomia che distingue i politicanti da chi lotta per costruire mondi nuovi e non per essere riconosciuti e assorbiti dal mondo vecchio. Come se le istituzioni a priori fossero amiche delle lotte.
Gli ultimi si devono auto-organizzare, il mondo di sotto deve tornare a fare tremare questa città e questo paese. Solo questo potrebbe cambiare i rapporti di forza attuali e porre fine alla borghesia dei ceti politici di sinistra e di movimento, ma soprattutto al modo coloniale di vedere la lotta e la rivoluzione. Il mondo vecchio non può essere riformato, la nostra sfida riguarda la secessione verso ciò che fu e la scoperta di ciò che può e deve essere. Chi non ha paura di perdere qualcosa perché non ha niente, chi non pensa a un domani perché un presente non ce l’ha, chi il problema della violenza non se lo pone perché la violenza la subisce tutti i giorni, ecco chi fa paura alla borghesia.

ROMPERE CON L’ESISTENTE, ABITARE LE ROTTURE.

I tempi che stiamo vivendo ci parlano chiaro: è finito il tempo delle mediazioni, il potere vuole chiudere ogni spazio di agibilità che abbiamo conquistato. Tanto si è detto sul significato e la declinazione della parola conflitto. Si può chiamare conflitto un corteo in cui si manifesta senza scontri, una Street parade, il lanciare delle uova, l’occupare una sede. O per conflitto si può intendere lo scontro con la polizia, i picchetti davanti alle fabbriche, il gesto di occupare una casa. In realtà è poco interessante il dibattito sulla pratica più o meno rivoluzionaria, il vero nodo è se ciò che mettiamo in campo agisce in termini di rottura con l’esistente e i suoi poteri o serve a perpetuare un’auto-narrazione dentro agli stessi meccanismi di sfruttamento. Esistono fattori come il rapporto tra le forze in campo, la percezione nel e del territorio, la puntualità nel dibattito che ovviamente influiscono sulla recezione collettiva di un’azione o un gesto, sul sentirsi parte di qualcosa. Ciò che oggi è possibile molto probabilmente prima non lo era, così come ciò che ora non è assumibile domani lo potrà essere, se sarà cresciuta l’intensità delle lotte. Perché ciò che è in questione sono quei gesti che ci fanno passare alla tappa successiva, con i quali tutti assieme superiamo paure e incrostazioni del passato
La differenza sta negli obiettivi, nella strategia. Se lottiamo per colmare i vuoti dello stato e non per esplicitare la vita che vorremmo la rottura non può avvenire e per quanto ci possa essere lo scontro e anche la vittoria, questa tante volte sacrifica l’autonomia e l’organizzazione che si è stati in grado di mettere in campo. I nostri nemici quando concedono qualcosa lo fanno per evitare il peggio, per fare calmare le acque in vista della prossima mossa. Le istituzioni sanno mettere in campo una strategia che mira a recuperare consensi, a dividere i buoni dai cattivi e a eliminare i processi di auto-organizzazione che nascono.
Poi c’è il nodo del consenso, su cui si fa sempre appello quando si vuole nascondere la propria debolezza o vigliaccheria. Il consenso serve, i nostri gesti devono essere raggiungibili, desiderabili, la gente deve avere voglia di fare lo stesso, di venire con noi. Il problema è quale consenso ci interessa, quello della borghesia o quello dei proletari? Il consenso che ci interessa è quello delle persone con cui costruiamo o potremo costruire giorno dopo giorno un’idea diversa di gioia/felicità. Nessuno si è mai chiesto quale fosse l’opinione della gente dei quartieri dopo gli scontri del Primo Maggio milanese, tutte le valutazione partivano dall’opinione “politica” di chi era stato colpito a livello materiale o morale, il racconto del giorno dopo rifletteva il modo di vedere e pensare della borghesia milanese preoccupata di difendere i propri privilegi o del cittadino medio legalitario e perbenista. Allo stesso modo la discussione in rete che è avvenuta (l’unica che c’è stata) è stata influenzata dal racconto maggioritario, di chi ha in mano il monopolio dei mezzi di comunicazione. Cosa ne pensavano gli abitanti del Giambellino, di Corvetto, di San Siro, di Quart’Oggiaro, di Cimiano, di Barona, del Ticinese o degli altri quartieri popolari, vedi occupazioni, in giro per l’Italia? Nelle discussioni a voce in periferia i termini del discorso erano meno imbarazzanti di quelli ufficiali, sia del nostro non-movimento, sia del potere. Qualunque sia il giudizio su ciò che è successo, quando i compagni parlano come parla il potere, bisogna preoccuparsi.
Quando difendiamo uno sfratto, quando picchettiamo davanti ai cancelli di una fabbrica, quando facciamo i collettivi a scuola l’obiettivo non è semplicemente l’affermare una mancanza o una ingiustizia ma affermare una possibilità, ricompattare un sentire e una presenza in termini collettivi e conflittuali. Fare la lotta agli sfratti senza occupare una casa, vincere una vertenza sindacale senza cambiare i rapporti di forza dentro il magazzino, chiedere la libertà di movimento dei migranti senza farsi carico dell’illegalità che comporta il rendere reale la solidarietà, limitarsi a fare appello alla scuola e all’università pubblica senza interrogarsi sul modello di istruzione che ci interessa, sono tanti modi di mantenere e migliorare lo stato di cose presenti e non di rompere con i processi e i meccanismi di pacificazione e di riproduzione sociale che impediscono lo svilupparsi dei divenire e dei possibili rivoluzionari.
Una strategia rivoluzionaria si deve scontrare di continuo con ogni ostacolo le si presenti davanti, per aprire nuovi possibili deve essere in grado di farla finita con gli automatismi, l’auto-rappresentanza. Deve sviluppare processi organizzativi in grado di mettere in difficoltà la controparte, farle paura, rendere difficile il suo lavoro di mediazione politica. Dobbiamo tornare ad essere imprevedibili.
Bisogna però essere in grado di abitare gli spazi che si aprono con le rotture, essere in grado di riempire i vuoti che si creano, di creare proposta politica in grado di superare ciò con cui si è rotto. Se questo non avviene, le rotture vengono abitate e gli spazi vengono chiusi dal potere che si ristruttura, che cambia forma, che rovescia a suo favore la rottura, riassorbendo tutta la potenza che non è riuscita a dispiegarsi. Uno dei problemi e degli errori più grandi di chi oggi agisce in termini conflittuali è l’incapacità di abitare le rotture che si producono, perché i limiti del conflitto vengono a galla quando non si ha la capacità di leggere i cambiamenti, di fare nascere qualcosa in grado di seppellire ciò che c’era prima. Se questo non avviene, il conflitto e la rottura rimangono immortalati e chiusi in una giornata, in poche ore, e non si dispiegano nel territorio, nell’immaginario collettivo. Se non si riescono ad abitare le rotture si finisce indirettamente per mantenere intatto lo stato di cose presenti. I compagni zapatisti ci suggeriscono: “Sapete? Uno degli inganni di chi sta sopra è convincere quelli in basso che quello che non si ottiene rapidamente e facilmente non si otterrà mai; convincerci che le lotte lunghe e difficili stancano e non arrivano a niente. Truccano il calendario del basso sovrapponendo il calendario di sopra: elezioni, apparizione, riunioni, appuntamenti con la storia, date commemorative che occultano solo il dolore e la rabbia.”
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IL CORAGGIO DEI MIGRANTI, UNA NUOVA LOTTA DI CLASSE.

Se pensiamo alla risposta che i movimenti stanno mettendo in campo davanti agli attacchi del governo il morale scende subito. L’ultima volta che si sono visti gli studenti incazzati era nel 2010 ma quella mobilitazione fu cavalcata dal “Partito di Repubblica”, intenzionato a far cadere Berlusconi. E’ più facile ricordare l’ultimo comizio della Camusso che il conflitto operaio in piazza. Se 40 anni fa qualcuno avesse descritto la situazione attuale sarebbe stato preso per pazzo.
Le piazze sono vuote, come vuota è la politica e l’interesse generale per ciò che ci accade intorno. La televisione e gli smartphones insieme a trent’anni di contro-insurrezione hanno distrutto ogni comunità e senso d’appartenenza e prosciugato il mare in cui i movimenti nuotavano. Attraverso un uso strategico della scuola, della fabbrica e del quotidiano, il potere ha costruito, orientato e addomesticato le proprie soggettività impedendo di fatto la possibilità di prendere parte al mondo se non come soggetti disgregati, privi di relazioni sociali reali e collettive.
E’ da qui che partiamo, e senza ritrovare affluenti in grado di impedire al fiume della rivoluzione di prosciugarsi definitivamente saremo dei pesci fuori acqua destinati a una dura e triste sconfitta.
La parola guerra è tornata a far paura negli ultimi 15 anni. Con la scusa della guerra al terrorismo si bombardano e saccheggiano intere zone del pianeta. Allo stesso tempo l’Italia ha visto aumentare l’ingresso di persone provenienti da ogni dove negli ultimi anni. All’inizio i padroni si leccavano i baffi, mano d’opera a basso costo e un nemico interno da esporre per nascondere malaffari, corruzione e giochi di potere.
Ora la situazione è distinta, perché la guerra in Medio Oriente ha scatenato una diaspora verso l’Europa che nessun paese è in grado di sostenere a livello economico e politico. I flussi migratori continuano ad aumentare e nonostante “gli sforzi” dell’occidente per tenere lontani i “barbari” nei prossimi mesi e anni i profughi da non-soggetti, ignorati, lasciati a morire di fame, potrebbero diventare i protagonisti della messa in discussione del modello Europeo e occidentale.
Il profugo è un soggetto creato dal potere coloniale, quando emigra si porta dietro questo ruolo, sia nella sofferenza e nel sacrificio del viaggio, sia nella richiesta di accoglienza. Forse è proprio quando le condizioni materiali che lui si aspetta di trovare vengono tradite che si mette a lottare. Sicuramente su queste persone giocano meno le convinzioni morali che frenano gli italiani, come la legalità, la violenza, la disciplina del lavoro. Forse sarebbero gli unici in grado di fare realmente in occidente la guerra alla guerra.
Chi scappa dalle guerre, dalla povertà e dalla fame, chi lavora in condizioni al limite dello schiavismo non ha niente da perdere e la rassegnazione è l’unica cosa che queste persone hanno dimenticato cosa sia. E’ per questo che i magazzini di mezza Italia scioperano sommersi da mille lingue e dalla determinazione e il coraggio di tanti operai quasi tutti stranieri. E’ per questo che i movimenti di lotta per la casa sono composti maggiormente da migranti. E’ per questo che Ventimiglia e la lotta alle frontiere fa paura al potere, perché non si parla più soltanto di diritti, di documenti, ma di libertà di circolazione, di vita, e si lotta per tutto questo.
Una nuova guerra di classe si combatte sulla pelle dei migranti, chi non ha subito la sconfitta degli anni 70 , 80 e 90, chi ha rischiato la vita lasciando affetti e sogni per cercare di costruirsi un futuro migliore è meno propenso ad abbassare la testa. Di questo magistrati, poliziotti e politici hanno paura, perciò cercano di ricattare i migranti attraverso mille procedure prima di arrivare alla regolarizzazione vera e propria. Arrivare ad essere un cittadino Italiano per un migrante vuol dire sopravvivere ad anni di sfruttamento e percorsi a ostacoli. La cittadinanza stessa è poi posta sotto ricatto: può sempre essere revocata se viene ritenuto che la condotta mette in discussione la sicurezza dello Stato. Un recinto disposto ad inculcare la rassegnazione. Anche per questo le frontiere sono tornate. Per questo bisogna lottare al fianco dei migranti, imparando da ogni comunità, mettendo a disposizioni mezzi e saperi, contaminandosi a vicenda, distruggendo definitivamente ogni visione coloniale della lotta.
Essere presenti dove le lotte dei migranti nascono, fare inchiesta per capire e imparare dalle comunità straniere, studiare i bisogni, creare incontri, sviluppare solidarietà, intrecciare mondi e culture, contaminare e lasciarsi contaminare.
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SENZA SINISTRA ALLA RICERCA DI MONDI NUOVI

Non è il dibattito intorno a sterili giochi elettorali ad interessarci, bensì la riflessione ed il confronto intorno ai territori che viviamo, i percorsi che scegliamo di intraprendere, le nostre difficoltà ed i punti di forza. E’ questo il dibattito che ci dovrebbe interessare e che va costruito partendo dal vuoto e dalle difficoltà materiali che ci troviamo ad affrontare nel presente.
Il panorama politico mondiale è sconvolto da guerre e dalla violenza del capitalismo, ma in tanti posti del mondo il problema della costruzione di infrastrutture partigiane, di forza popolare, di comunità, di autonomia, di autogoverno e di forme di vita come nel Rojava e nelle comunità zapatiste è pratica quotidiana. Allo stesso modo ci sono tante comunità indigene del Sudamerica che, dopo il tradimento di quella sinistra che hanno portato al potere, ora ricominciano ad organizzarsi e a coordinarsi anche con i movimenti sociali metropolitani, così come le esperienze di auto-organizzazione delle periferie di tante metropoli del “continente perdido”, e anche forme di comunità in Messico che combattono quotidianamente contro il narcotraffico creando delle vere e proprie zone di autogoverno autodifese. I nostri modelli vanno cercati nelle pratiche resistenti del ventunesimo secolo.
Il dibattito sulla forza materiale autonoma va rilanciato perché a livello strategico è qualcosa di fondamentale. La costruzione di comunità solidali non è qualcosa di scontato, è qualcosa su cui bisogna scrivere, creare momenti di discussione. A Bologna durante un anno di occupazione dell’ex Telecom decine di famiglie mettevano in comune, per risolverli insieme, problemi quotidiani che solitamente rimangono confinati alle quattro mura domestiche: come iscrivere i figli all’asilo o come ottenere la tessera sanitaria. Perché è questa la base per qualsiasi possibilità di discorso politico. Senza comunità, senza relazioni, senza un sentire comune la politica rimane ai margini, al di fuori della riproduzione della vita di chi abita in un determinato luogo. Forzare questo vuoto, le condizioni sfavorevoli, fare parte della vita che in un territorio si sviluppa, ecco il nostro compito.
Come costruiamo qui e ora una forza in grado di creare autonomia, potenza popolare e solidarietà, come diffondiamo mondi nuovi in ogni angolo delle penisola? Come teniamo lontani gli sciacalli, gli sbirri, gli speculatori, i politici facendo parte di un tessuto sociale reale e non di un ceto politico? Come ci posizioniamo dentro l’attuale scontro di classe? Cominciamo a riflettere sulla nostra incapacità di organizzarci, saccheggiamo tutto ciò che si muove in giro per il mondo, riscoprendo la curiosità e complicità per lotte ed esperienze geograficamente lontane da noi, una curiosità che abbiamo perso negli anni.
Passo dopo passo, granello di sabbia dopo granello di sabbia, sarà un processo lento e lungo, ma bisogna cominciare perché questo è molto meglio che vivere aggrappati ai cadaveri degli Iglesias , dei Tsipras, dei Correa, dei Morales e dei Pisapia di turno e buttare via sogni e desideri alla ricerca eterna di una “Nuova Sinistra” che meno male non tornerà mai più.
Vogliamo abolire la “politica” solo per poterla realizzare. Vogliamo abolirla come sfera separata dalla vita quotidiana. Vogliamo costruire un autonomia che afferma la sua pratica e la sua etica. Dobbiamo rinunciare ad una concezione del politico fondata sulla potenza di entità astratte e unificanti e abitare nella molteplicità concreta degli spazi e dei momenti, ridando alla politica le sue proprietà originarie: un tempo, un luogo, degli esseri, una vita che si fa e si disfa al presente.
Compagni e compagne per l’autonomia diffusa autonomiadiffusa@inventati.org
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[1] Pachamama o Mama Pacha, è la Dea Terra dei popoli andini del Sudamerica, tuttora venerata dalle genti che ancor ‘oggi si riconoscono nella cultura Inca.

Parigi, 4 giugno: MANIFESTAZIONE ANTIFASCISTA

Contro repressione, razzismo ed estrema destra: AUTO-DIFESA POPOLARE!

 

Tre anni dopo, non ci arrendiamo!
Sono trascorsi tre anni da quando il 5 giugno 2013, il nostro compagno Clément Méric, attivista sindacale e antifascista, fu assassinato da membri del gruppo neonazista “Troisième voi” (terza via). Da allora, la sua morte è ancora rappresentata nei media e nei discorsi politici come la conseguenza di una rissa tra bande, ridotta a mera notizia di cronaca e non come la conseguenza della normalizzazione delle ideologie di estrema destra in ampi settori della società francese. Il protagonismo dei gruppi neonazisti, i discorsi razzisti e sessisti diventati la norma sono solo i sintomi dell’instaurazione di un sistema autoritario, sessista, razzista e anti-sociale.

Gli attentati di gennaio e quelli di novembre hanno dato slancio alla militarizzazione delle forze di polizia. Lo stato di emergenza, sotto il quale siamo chiamati a vivere in modo permanente, significa per esempio 3379 perquisizioni per soli 6 procedimenti giudiziari per terrorismo. Tutti i musulmani, o presunti tali, sono considerati come un “potenziale minaccia terroristica” e stanno rapidamente diventando obiettivi delle politiche razziste e i capri espiatori destinati a distrarre la popolazione. Ma questi discorsi distruggono migliaia di vite. Perquisizioni e provvedimenti giudiziari, sono fonte di umiliazione, costituiscono una violenza di notevole grandezza, sia fisica che psicologica. Recentemente, il dibattito sulla privazione della cittadinanza è stato in realtà solo un’ulteriore opportunità per i politici per competere nel discorso razzista. In questo modo, il governo è esentato da ogni responsabilità per la sua incapacità di garantire la sicurezza interna, e costringe a far pagare a intere famiglie la propria incompetenza.

Quest’ondata di islamofobia è diventata un laboratorio di repressione di qualsiasi voce dell’opposizione al governo. Scatenare la polizia alla vigilia della COP21 lo dimostra. La militarizzazione dello spazio pubblico non è più uno spettro, ma una realtà concreta e quotidiana. Le molteplici politiche repressive verso le forme di protesta popolare, le assoluzioni sistematiche nei casi di criminalità poliziesca, fino all’arbitrarietà e alla brutalità contro le popolazioni vulnerabili sono occultate dallo stato di emergenza, e la criminalizzazione degli attivisti dei diritti umani della campagna BDS, tutto questo non è che l’espressione pubblica senza maschera di un razzismo che permea le istituzioni e le amministrazioni francesi. Tutto questo per portarci ad accettare la violenza della polizia, come modalità di governance delle classi popolari.

Inoltre, la “crisi dei migranti” è un sintomo ulteriore di questa fortezza Europa che accetta che il Mediterraneo diventi un vasto cimitero marittimo per le vittime del capitalismo e delle guerre di cui l’Europa stessa è responsabile dal Mali fino alla Siria. Mentre la globalizzazione permette la libera circolazione delle merci e dei flussi finanziari, gli esseri umani sono costretti a fermarsi di fronte ai muri, vengono rinchiusi in campi di internamento o in prigioni. L’Europa ha creato una fortezza, preferendo smantellare i campi, anche con un incendio, sia che si trovino alla frontiera come a Calais o nei distretti parigini come alla Chapelle, Stalingrado e Gare d’Austerlitz.

La moltiplicazione di attacchi razzisti sono solo la conferma purtroppo ci ciò che alcuni denunciano da anni: la vittoria ideologica e politica dell’estrema destra. La creazione di politiche xenofobe da parte dei governi non è più un’eccezione, ma sta diventando lo standard europeo.

Le mobilitazioni contro la Loi Travail rivelano che si è toccato il limite massimo di sopportazione di fronte alla distruzione pianificata di conquiste sociali e di fronte l’insicurezza come norma sociale. Sono la risposta a tutti coloro che pensano che la rassegnazione e l’individualismo abbiano vinto. La violenza della polizia e la repressione esercitata contro queste proteste mettono in evidenza quelle pratiche che sono comuni nei quartieri popolari e tabù nel resto della società. Più la situazione sociale s’inasprisce, più si moltiplicherà la violenza poliziesca. Queste politiche securitarie e razziste sono un strumento della guerra sociale, precarietà e insicurezza sociale come mezzo di governo che regola la nostra società.

Perché non abbiamo dimenticato il sorriso del nostro compagno, né le sue lotte, perché noi non abbiamo perdonato l’infamia dei fascisti che l’hanno ucciso e il sistema che li produce, perché non lasceremo la sua memoria nelle mani dei giudici e giornalisti in prossimità del processo, promuoviamo una dimostrazione antifascista per sabato 4 giugno 2016 alle 14:00 a Stalingrado (Parigi).

Comité pour Clément e Action Antifasciste Paris-Banlieue

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Presentazione del corteo
e confronto sulla situazione delle lotte francesi
con i compagni dell’Azione Antifascista Paris-Banlieue:
giovedì 19 maggio alle 21:00, a Pellicceria Occupata
[vico sup. di Pellicceria, 1 – Genova]

21 maggio – Azione internazionale contro le deportazioni

Si all’accoglienza incondizionata dei migranti!
No alla loro deportazione verso la Turchia fascista di Erdogan!
APPELLO PER UNA GIORNATA INTERNAZIONALE DI MOBILTAZIONE
Sabato 21 Maggio, ovunque.

Dopo aver consegnato i migranti ai passeurs e reso la Grecia una trappola per rifugiati, rifiutando ostinatamente di aprir loro mezzi legali di accesso al territorio e avallando la chiusura della rotta dei Balcani, l’Unione europea è impegnata oggi in un vero e proprio baratto della vergogna.
Con l’accordo tra l’UE e la Turchia saranno massicciamente respinti in Turchia tutti i migranti che hanno raggiunto la Grecia dal Mar Egeo nelle peggiori condizioni e rischiando la vita, e che a seguito di una indagine dubbia si vedono arbitrariamente negare la copertura legata all’asilo.

La Turchia è un “paese sicuro”? Niente è meno… sicuro, visto che la Turchia non ha un sistema di protezione dei rifugiati, così che essi non hanno la garanzia di non essere deportati di nuovo in un Paese di persecuzione, come quelle centinaia di siriani espulsi in zone di guerra nelle ultime settimane.

Inoltre, la separazione tra migranti buoni e cattivi è scioccante: non solo le aree “sensibili” cambiano, e sono definite solo in funzione di interessi specifici dell’Europa, ma ci sembra disonesto opporre “zone di guerra” ad aree di povertà, create da guerre economiche condotte dalle potenze imperialiste che sostengono dittature, garantendo i loro mercati ed i loro interessi.

E oltre alle espulsioni, ci sono strumenti più insidiosi per eseguire questa divisione in base alle esigenze di manodopera e spingere i migranti a partire spontaneamente. Le politiche di detenzione a ripetizione, per mesi o addirittura anni negli hot-spots alle frontiere d’Europa o nei centri di detenzione al suo interno, dove sono sottoposti a violenze, torture, costanti umiliazioni e mancanza di accesso alle cure, sono tutti elementi della militarizzazione delle nostre società e del rafforzamento dello stato di polizia. E le orde di clandestini permanenti così generati sono facili prede per tutti i ‘business’ (sfruttamento al lavoro, mercato del sesso, mafie, ecc).

In questa corsa agli egoismi xenofobi, un’altra vergogna sta emergendo: per arrivare ai suoi fini, l’Europa accetta di trattare con un Paese che viola apertamente le libertà individuali e collettive più fondamentali, che è in guerra contro il proprio popolo, e di affidargli il destino dei rifugiati.

Mentre l’UE si appresta a pagare miliardi di euro alla Turchia come prezzo di questo baratto di migranti, copre la violenza inflitta agli oppositori osservando un colpevole silenzio sugli abusi del regime turco. Tutti conoscono i bombardamenti e massacri subiti dai curdi. Tutti ormai sanno che la stampa d’opposizione è completamente imbavagliata, e che sono in l’epurazione delle università e della magistratura.

E l’Unione europea dà 6 miliardi di euro a uno Stato che è noto per armare jihadisti, continuando allo stesso tempo a diffondere ovunque la confusione nauseante tra terrorismo e migrazione? Si prendono pericolosamente gioco di noi mantenendo questa xenofobia generale. Pensato per scoraggiare i migranti a raggiungere la Grecia, l’accordo ha già provocato la morte di diverse centinaia di migranti nei pressi della costa egiziana, passaggio ancora più pericoloso per evitare la Turchia.
Ma i leader delle “democrazie occidentali” preferiscono raccogliere i cadaveri, piuttosto che accogliere le persone in esilio. Un altro modo per separare?

La vita di un* migrante o di un* oppositore/trice curd* non vale molto in questo negoziato immondo!

Distruggiamo l’intesa tra questi stati razzisti e polizieschi!

Autodeterminazione dei popoli e degli individui!
Libertà di circolazione e d’insediamento!

Collectif Soutien Migrants 13 [Marseille]

Qui il testo completo dell’appello
[in inglese, francese, italiano, greco, spagnolo, tedesco, turco].

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Il precipitare di un mondo, l’urgenza di una lotta

Mercoledì 30 settembre 2015 la prefettura di Ventimiglia, su ordine del Ministero dell’Interno, ha deciso di sgomberare il presidio di migranti e attivisti che da mesi occupava una piccola area nei pressi immediati del confine tra Italia e Francia. Ventimiglia era uno dei tanti nodi caldi della questione immigrazione che sta ridisegnando le cartine territoriali, sociali, politiche e umane del pianeta.

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Siria, Afganistan, Iraq, Somalia, Libia, mille altri luoghi: l’elenco dei paesi in guerra e infinito e milioni sono le persone che scappano dalle loro terre. Le cause di queste tragedie e dei relativi esodi sono sempre le stesse: un tempo si parlava di colonialismo e imperialismo, oggi la chiamano globalizzazione. E’ il capitalismo che da secoli saccheggia i territori, costringendo alla miseria e alla fuga le sue popolazioni. Ed il capitalismo stesso sa di non poter fermare il disastro, tant’è che dal 2004 ha istituito un organo di polizia internazionale, Frontex, per pattugliare e controllare quelle frontiere e quei confini che dividono il pianeta in modo sempre più spietato. Oggi Frontex ci dice che quest’emergenza durerà decenni. Bella scoperta.

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La celebrazione della caduta del muro di Berlino e quella degli accordi di Schengen come fine di un’epoca in nome della libera circolazione appaiono oramai una barzelletta storica, uno scherzo di cattivo gusto. Confini fortificati, muri di cemento e reticolati di filo spinato percorrono l’Europa in lungo e in largo per centinaia di chilometri, aumentando in modo esponenziale di giorno in giorno. Schengen rimane valida solo per le merci, a ricordarci qual’e la vera scala dei valori per il capitalismo, al di là delle retoriche di facciata dei politici di turno.Hanno cominciato anni fa le barriere metalliche di Ceuta e Melilla a ricordare il privilegio della ricca Spagna nel cuore del povero Marocco; allora sembrava un anacronismo fuori tempo, in realtà era un avamposto. Oggi a scoraggiare “scomode intrusioni” stanno crescendo muri ovunque, tra Grecia e Macedonia, tra Ungheria e Serbia, Bulgaria e Turchia, uno a Calais; ognuno di essi porta tutti i giorni storie di morte e disperazione. E dove non c’e la terra da dividere, da rendere impenetrabile, c’e il confine naturale del mare da superare, reso terribile dalle varie mafie che gestiscono la tratta dei migranti: oltre tremila morti nel Mediterraneo solo dall’inizio del 2015. Non e forse questo lo scenario di una guerra, una guerra dell’Occidente contro i poveri e gli esclusi?

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Nella geografia spaziale che i migranti determinano nei loro tentativi di sopravvivere si materializzano scenari dai significati profondamente diversi. Due casi paralleli esemplari: quattromila migranti accampati nella cosiddetta “giungla” di Calais sulla costa francese; altri quattromila ospiti nel CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Mineo nel cuore della Sicilia.

A Calais i migranti arrivano dopo viaggi infiniti, con la meta agognata dell’Inghilterra; lì vengono bloccati da un dispositivo feroce che deve impedire loro di attraversare la Manica. Gli assalti al tunnel, ai camion e ai treni che attraversano il canale sono continui e sempre più di massa: quelli che ce la fanno sono pochi, non rari i morti. Nell’attesa i migranti hanno occupato un’area ai margini di Calais costruendoci una vera e propria città precaria –la “giungla” – dove migliaia di persone vivono, in molti ormai da anni. La polizia, che sistematicamente sventa ogni tentativo di occupazione di case in città e nei paesi limitrofi, saltuariamente sgombera con violenza “la giungla”, che pero rinasce dalle sue ceneri come una Fenice, arricchendosi di volta in volta di scuole, negozi,attività, spazi di ritrovo e socialità. Tra un tentativo e l’altro di attraversare la Manica, tra una sfida e l’altra con la morte, tra mille difficoltà e inevitabili contraddizioni, gli abitanti nella “giungla” si autogestiscono e si organizzano, al punto che molti di essi hanno rinunciato a raggiungere l’Inghilterra perchè ormai preferiscono restare nel luogo e nelle relazioni che lì vi hanno preso forma e vita.

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A Mineo invece i migranti arrivano quando uno dei tanti barconi che parte dalla Libia riesce nell’impresa di attraversare il Mediterraneo senza affondare, e approda a Lampedusa. Da lì quelli che intendono richiedere asilo politico vengono smistati dalla autorità nei cosiddetti centri di accoglienza. Mineo e uno dei più grossi d’Europa. Mineo e un villaggio di prefabbricati e case unifamiliari costruito dall’impresa edilizia Pizzarotti nella campagna intorno a Catania per ospitare i militari americani della base di Sigonella, che i militari stessi hanno abbandonato nel 2010 per trovare una sistemazione migliore. Mineo e un luogo anonimo, isolato dai paesi circostanti da oltre dieci chilometri di campagna non serviti da nessun mezzo pubblico. Nei prefabbricati di Mineo i migranti vivono per anni in attesa di un asilo che non arriva mai, in condizioni penose materialmente e moralmente, invisibili alla popolazione, isolati, sradicati, con una scheda prepagata di pochi spiccioli da spendere, senza la possibilità di cucinare autonomamente negli alloggi sovraffollati, con plotoni di poliziotti in antisommossa che li controllano tutto il giorno. E’ la tipica gestione concentrazionaria dei luoghi gestiti dalle autorità (polizia, esercito, CroceRossa) in situazioni di emergenza, come nei campi post-terremoto dell’Aquila, dove nessuno spazio e concesso all’autonomia e all’autorganizzazione delle persone in nessun ambito della propria vita. Mineo se non proprio un lager e una prigione; e infatti a Mineo ci sono suicidi e talvolta rivolte, come nelle prigioni. Mentre nella“giungla” di Calais, attraverso l’autogestione, molte persone arrivano al punto di abbandonare il desiderio di andarsene, a Mineo, sotto il controllo dello Stato e delle forze di polizia, le persone desiderano evadere o togliersi la vita. Ma non solo; Mineo, come tanti altri centri di accoglienza, e finita nel ciclone dell’inchiesta di“Mafia Capitale”, punta dell’iceberg del business dell’accoglienza che sembra aver turbato tante anime belle. Mineo e una delle tante mangiatoie in cui le cooperative di ogni colore politico si spartiscono la torta succulenta del terzo settore; milioni di euro stanziati formalmente per aiutare i “dannati della terra” che vanno ad arricchire le tasche dei soliti noti.

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In questo confronto tra la gestione della propria sopravvivenza da parte dei migranti e il trattamento riservato agli stessi dalle autorità emerge nitida una fotografia di cosa c’e in ballo sui confini d’Europa; e, di riflesso, si intuisce il significato di quanto accaduto in questi mesi a Ventimiglia, sorella minore della “giungla” di Calais. Rivendicare l’esperienza di Ventimiglia significa rilanciare l’importanza dell’autorganizzazione dei migranti nel momento del disastro, disastro di cui loro sono le prime vittime ma di cui tutti siamo parte e di cui dobbiamo decidere se essere complici o nemici; significa condividere un’esperienza diretta di lotta per rompere la gestione totalitaria delle autorità – statale o internazionale che sia – che produce solo repressione per i poveri e business per i ricchi.

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L’ esperienza di Ventimiglia ha punti di forza da rilanciare come debolezze da cui trarre insegnamenti.

Da un lato c’e il valore impagabile di una situazione che, trasformandosi da luogo opprimente di transito in spazio di organizzazione e autonomia, e diventata una comunità permanente in lotta. In questo processo essa è stata preziosa in se e per se, un’esperienza che ha infuso forza e coraggio a chi vi ha partecipato, migranti e solidali. Nello scenario imposto dal capitalismo e dalla Fortezza Europa, contro la guerra tra poveri fomentata dai razzisti (e tollerata da troppi complici di “sinistra”), si vince già autorganizzandosi, vivendo assieme,sperimentando la solidarietà tutti i giorni tutto il giorno, costruendo e vivendo collettivamente una situazione di resistenza e lotta. Come hanno ben detto alcuni compagni milanesi “la forza di Ventimiglia sta nel fatto che come in Piazza Tahir, al campeggio di Chiomonte, Piazza Taksim, Plaza del Sol, intorno a una lotta contro un’ingiustizia si scopre la vita, la felicità di lottare insieme, di costruire con le proprie mani qui ed ora un’alternativa alla miseria che ci vogliono imporre. Si scopre che forse non vale la pena andare fino in Germania trovare un futuro migliore, perché il futuro e già qui, nella solidarietà e nell’amicizia, nella gioia del amico che ce l’ha fatta grazie al nostro aiuto e nella rabbia per i ragazzi chiusi in un container dalla gendarmeria francese”. Fare questo, “stravolgere i territori che sembrano inabitabili e renderli luoghi dove e piacevole stare, da dove non vorremo mai andarcene” e farlo insieme ai migranti, significa, per chi ce l’ha a cuore, portare la lotta contro il razzismo nel quotidiano, in un reale denso di sfumature e possibilità. Fare questo offre preziose opportunità di recidere le radici alla presa di terreno dei neofascisti, senza dover aspettare lo scontro occasionale e l’apertura delle sedi di CasaPound e Forza nuova. Da sempre la destra raccoglie consenso nel momento in cui situazioni di crisi spostano il bersaglio facile del disagio su chi e più debole, in questo caso i migranti, i profughi. Non e un caso che stiano rialzando la testa proprio ora e la parabola di Alba Dorata in Grecia in questo senso e esemplare,paradigmatica. Per loro e un momento propizio, un’occasione da cogliere; a meno che i compagni non capiscano il senso profondo di quello che sta accadendo e di costituire a partire da esso una posizione di contrattacco.

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Dall’altro lato e pur vero che situazioni come il campeggio di Ventimiglia e altri snodi a ridosso dalle frontiere sono bolle difficili da gestire materialmente ed a livello strategico. Intanto perché per la stragrande parte delle persone non e materialmente possibile trasferirsi a vivere sul confine. Ma soprattutto perché le sfide decisive di questa enorme partita si giocano altrove. L’accoglienza, la gestione logistica e lo smistamento delle masse dei migranti avvengono a monte, al momento del loro arrivo e nelle grandi città. Ed e lì, in questi snodi, che chi ha cuore di spendersi in questa lotta di umanità, giustizia e riscossa può impegnarsi su svariati fronti.

All’apice della lotta Notav sovvenne la consapevolezza che la lotta all’alta velocità in Valsusa si giocava nella scommessa di allargare a macchia d’olio quell’esperienza di resistenza: “portare la valle in città”, “portare la valle ovunque”, divennero le parole d’ordine di un momento storico breve e intenso, che fece intravedere potenzialità di lotta enormi. Qualcosa di molto simile vale oggi per la lotta di resistenza alla Fortezza Europa. Molto si può fare per portare “Ventimiglia ovunque, in ogni città” e, in questo senso, il bagaglio di esperienze dei compagni, arricchitosi in questi anni di lotte, non ha che da dispiegarsi permettendo ad ognuno di muoversi a seconda della propria sensibilità.

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Se c’e un dato incontrovertibile degli ultimi anni e che oggi la possibilità di accedere alle informazioni e moltiplicata a dismisura: tutti, o quasi, hanno la possibilità di sapere ciò che accade nel mondo. A fronte di questa massa di informazioni l’apparente paradosso e che aumenta il senso d’impotenza, il dubbio di non sapere cosa fare, da dove partire, come organizzarsi e reagire. Eppure questa ricchezza di informazioni non può rimanere un handicap. E’ necessario sapersi muovere nello sterminato campo delle necessità pratiche, nelle strade delle città e negli spazi focali della lotta, quanto nel delicato empireo delle idee e dell’immaginario, di tutto l’apparato che influenza la nostra volontà di agire e di metterci in gioco. Dobbiamo trovare le modalità per destreggiarci nell’urgenza degli avvenimenti quanto di elaborare ragionamenti di lunga prospettiva; essere in grado di formulare un immaginario altrimenti colonizzato dalla passività quanto di elaborare una teoria all’altezza degli accadimenti.

La storia non procede in modo lineare. All’interno dei processi storici ci sono salti, precipizi, accelerazioni, momenti in cui percorsi anche secolari arrivano improvvisamente ad una soglia critica, ad un dunque, ponendo questioni decisive che riguardano tutti.
E’ nostra sensazione che questo assomigli proprio ad uno di questi momenti epocali.

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Il moltiplicarsi e la recrudescenza di conflitti in territori sempre più vasti, il loro sovrapporsi in modo incontrollabile ed il loro presentarsi alle nostre porte nella forma della questione migranti non lasciano molti dubbi sull’urgenza e la gravità di quanto sta accadendo. Arriviamo forse oggi al dunque di un processo secolare di depredazioni, saccheggi e conflitti che l’Occidente capitalista ha provocato e che dimostra oggi di non saper gestire, a meno che non sia per lucrarci le ultime speculazioni possibili (“Mafia Capitale” appunto). Le milioni di persone in fuga dagli infiniti scenari di guerra e fame non sono contenibili, non sono gestibili, se non probabilmente con politiche già sinistramente sperimentate in passato. All’ombra di muri, fili spinati ed eserciti schierati ai confini, non e fantascienza distopica immaginare per esempio una riproposizione della gestione di quest’umanità in eccesso attraverso la riproposizione e l’aggiornamento dei campi di concentramento.

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Basti pensare che l’Europa e sul punto di assegnare (lo decide il 15 ottobre) alla Turchia di Erdogan la gestione di campi profughi destinati ad ospitare milioni di profughi e migranti irregolari respinti da altre frontiere dell’Unione e di pattugliare, in collaborazione con Frontex, l’Egeo. In cambio cosa chiede Erdogan? Che la Turchia venga riconosciuto come “paese terzo sicuro”, ovvero come paese democratico che rispetta i diritti internazionali, che non tortura ne perseguita nessuno. In pratica chi, sotto gli occhi del mondo, persegue,bombarda e tortura i curdi diventerebbe la forza democratica che gestisce e si fa garante dei flussi migratori nell’area al momento più calda. Quale specchio più significativo degli scenari prospettati dalla Fortezza Europa? La sensazione e di essere avviati ad un punto di non ritorno, di fronte al quale e impensabile restare spettatori passivi che si limitano a commentare le notizie e ad indignarsi. La guerra che si presenta alle nostre porte nelle forme delle masse di migranti in fuga ci riguarda in prima persona. Trovare la lucidità e le forme per opporsi ad essa non e una questione di pura solidarietà nei confronti degli ultimi della terra, ma di dignità e sopravvivenza collettiva. Come immaginare una qualsiasi lotta per la conquista di margini di libertà in un scenario che diventa così soffocante? Come non schierarsi contro una guerra che e sempre più palesemente “in casa nostra”? Il rischio e di svegliarsi troppo tardi, quando rimarranno pochi margini d’azione. Lo scenario muta rapidamente di giorno in giorno, non solo al livello delle scelte politiche dall’alto, ma anche nel vissuto delle persone travolte dagli eventi. Essere presenti, prendere posizioni incisive, costituirsi forza nell’ambito di ciò che sta accadendo, può spostare in modo decisivo l’ago della bilancia tra posizioni pericolose, esplicitamente reazionarie o semplicemente accondiscendenti, e opportunità da cogliere. Stabilire i passaggi da fare per muoversi in modo efficace in questo contesto e evidentemente tutt’altro che facile, ma e assolutamente necessario. Occorre sicuramente svegliare e condividere la coscienza dell’urgenza di doversi muovere su questo campo in modo risoluto. Occorre organizzarsi a livello locale stabilendo una priorità dei campi d’azione e intervento.

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In definitiva la questione dei migranti, declinata localmente nella situazione di Ventimiglia ma al centro delle vicende internazionali, tocca il cuore di tutte le lotte che attraversano questi tempi e dovrebbe verosimilmente coinvolgere ogni compagno. Da chi, avendo cara l’opposizione concreta al razzismo e al fascismo, non può non vedere la violenza e la minaccia in questo senso di muri, fili spinati e confini armati. A chi, lottando contro la devastazione e il saccheggio dei territori, non può ignorare la centralità decisiva del fatto che oggi le merci sono libere di attraversare il mondo e i corpi no; che si bucano le montagne per decine di chilometri per fare andare più veloci le prime e contemporaneamente si alzano muri alti chilometri per bloccare i secondi. A chi, lottando contro la precarizzazione della vita – sul lavoro, nella lotta per la casa, contro l’allargamento delle sacche di povertà – non può non rendersi conto che i dannati della terra in fuga dalla miseria e accalcati alle nostre porte sono solo l’avamposto di uno tsunami che a breve ci coinvolgerà tutti. A chi, avendo semplicemente preservato nell’animo un desiderio di umanità, spirito di solidarietà, voglia di rovesciare questo mondo, non riesce a voltare lo sguardo e a far finta di non sentire che si sta combattendo una delle battaglie più importanti contro la miseria e la barbarie avanzanti.

Rete NoBorders – Genova                                         Ottobre 2015

IL FOGLIO DI VIA – Storia e attualità di uno strumento repressivo

Quella di movimento è una delle libertà individuali che è stata messa sotto scacco dai vari poteri che si sono avvicendati nel corso della storia. Gli strumenti per colpire ed allontanare gli indesiderati di ogni epoca (poveri, proletari, rivoluzionari, poeti, girovaghi, eretici e dissidenti di ogni tempo) non sono certo mancati. Anche in epoca moderna. Dall’Italia risorgimentale al fascismo – perfezionatore ed inventore di norme ancora oggi vigenti – fino ai giorni odierni, sono state create leggi che stabiliscono dove una persona possa stare o meno, il quando e il perché.

IL FOGLIO DI VIA
Storia e attualità di uno strumento repressivo contro i poveri, le ribellioni sociali e la dissidenza politica

Proprio in tema di libertà di movimento, di libertà di spostarsi dove si vuole, dopo la caduta del fascismo le opzioni politico-legislative nella sostanza non sono mutate granché. Se il vecchio impianto del Codice Rocco fascista è rimasto praticamente immutato, tramutandosi nel nostro Codice Penale, sempre dal fascismo la Repubblica democratica italiana ha mutato quelle che si chiamano misure di prevenzione di polizia* ovvero quelle misure che colpiscono sulla base del solo sospetto di “pericolosità sociale” (un termine volutamente ambiguo). Misure amministrative, decise dalle questure, che non necessitano per forza della commissione di un reato. Misure di cui largo uso si era fatto in passato per annientare la marginalità sociale e gli oppositori del sistema.

Torna oggi pesantemente in voga la logica della messa al bando. Non possiamo non notare, infatti, un filo conduttore che, dal risorgimento al fascismo fino ad arrivare ad oggi, lega queste misure. Oggi il famigerato rimpatrio con foglio di via obbligatorio, ovvero la misura di prevenzione di polizia preferita dalle questure del Regno…ops pardon, della repubblica, trova nuove possibilità di intervento. Col “foglio di via” vengono colpiti, oggi come ieri, oltre alla marginalità sociale (venditori ambulanti, questuanti, rom, senza fissa dimora, prostitute e immigrati) anche gli oppositori politici e i contestatori del potere (vedi i casi applicati ai movimenti NO TAV in Val Susa e NO MUOS in Sicilia, ma anche all’area libertaria, agli antifascisti, a delegati sindacali di base, ad attivisti politici di gruppi che non godono di protezioni dall’alto). L’obiettivo è di allontanare dai territori e dai contesti di lotta gli attivisti, specie i più attivi. Ma viene sempre più impiegato anche contro i partecipanti a semplici manifestazioni, così da scoraggiare alla partecipazione. Misura abusata ed anche veloce perché, al contrario delle denunce che devono essere avvallate in sede penale, le misure di prevenzione di polizia non hanno bisogno di una ratifica processuale ma adottate con semplice firma del questore.

Il foglio di via non è una semplice misura limitante la mobilità di chi ne è colpito, va ad inficiare anche altri aspetti basilari della vita quotidiana che interessano il campo affettivo (legami di amicizia e di amore) oltre a quello politico, denotandosi come un vero e proprio attentato contro la libertà individuale. L’applicazione di questa misura è in rapida espansione, perché la sua efficacia è accresciuta dalla difficoltà di difendersi da accuse che si basano su presunzioni di pericolosità motivate arbitrariamente. Spessissimo il provvedimento si limita ad indicare quale unico elemento i precedenti di polizia del destinatario, come la partecipazione a manifestazioni, presidi, cortei, etc, comuni tra chi partecipa alle lotte sociali.

[*] Le misure di prevenzione di polizia oggi vigenti Le maggiori misure di prevenzione personali oggi sono: 1) l’avviso orale; 2) il rimpatrio con foglio di via obbligatorio; 3) la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con l’aggiunta del divieto o dell’obbligo di dimora. Le prime due sono decise dal questore mentre l’ultima prevede che sia un giudice ad esprimersi. Non si possono applicare ai minori degli anni diciotto e a persone diagnosticate come incapaci di intendere e volere. 

1.  Le misure di prevenzione di polizia durante il risorgimento e l’unità d’Italia.

Chiamate anche ante delictum per la caratteristica di colpire il destinatario aldilà della commissione di un reato, le misure di prevenzione di polizia vantano una antica tradizione repressiva, risalente addirittura a prima dell’unità d’Italia. Per alcune tipologie di persone – vagabondi, “oziosi”, “zingari”, questuanti, libertini, sospetti di furto, forestieri senza reddito o professione certi e anche individui considerati pazzi – dal ‘600 cominciano infatti ad essere emessi vari provvedimenti di messa al bando. La condizione stessa di “zingaro” o vagabondo diverrà circostanza aggravante in caso di commissione di altri reati. Ma la prima legge in cui venivano disciplinate le prime misure di prevenzione personali a carattere esclusivamente amministrativo è una legge del 1852 recante la dicitura “provvedimenti provvisori in materia di pubblica sicurezza”, approvata nel Regno di Sardegna. I destinatari alla messa al bando erano i forestieri che esercitavano il commercio ambulante senza licenza, coloro che erano sospettati di commettere furti in campagna o pascolo abusivo, ed ancora gli oziosi e i vagabondi. Non vi è da sorprendersi dell’inclusione dei sospettati di reati contro la proprietà tra quelli previsti. Dagli inizi dell’Ottocento si assiste a trasformazioni sociali colossali: la fine dell’economia rurale, l’esodo dalle campagne e la conseguente formazione del proletariato urbano. Circostanze che porteranno al formarsi del “brigantaggio” e all’apparizione di una popolazione diffusa poi ribattezzata “classe pericolosa”. Di fronte a questo nuovo sviluppo, in giurisprudenza il principio classista della sicurezza della proprietà privata prenderà lentamente il posto del principio delle prove formali.

Ottenuta l’unificazione dell’Italia, il fenomeno del brigantaggio in meridione, avvertito come una minaccia al nuovo governo, fece sì che il sistema delle misure di prevenzione del 1852 fosse aggiornato. Nel 1863 il Parlamento approvò la Legge Pica (“Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette”) che presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” rimase in vigore fino al 31 dicembre del 1865 (prorogata poi nel ’65 e ’71). Oltre ad introdurre il reato di brigantaggio, accostando il sovversivismo sociale alla criminalità di tipo mafioso, la Legge Pica introdusse per la prima volta nell’ordinamento italiano la pena del domicilio coatto. Al termine del periodo di domicilio coatto, che poteva durare fino a cinque anni, l’individuo era rinviato con foglio di via obbligatorio al luogo di residenza. Attraverso modifiche, nell’estate 1863 i Savoia estesero la Legge Pica alla Sicilia, con l’obiettivo di reprimere il fenomeno della renitenza alla leva militare. Divennero così perseguibili anche i renitenti, i loro parenti e persino – attraverso il concetto di “responsabilità collettiva” – i loro concittadini. Misure riprese nel 1865 attraverso il primo Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (abbreviato con l’acronimo T.U.L.P.S.) adottato in Italia, che oltre ad estendere il domicilio coatto per “motivazioni politiche” con l’imposizione di dimorare, dal mese ai tre anni, in una colonia di osservazione (isole difficili da raggiungere e da cui evadere) introduceva per la prima volta esplicitamente la misura del rimpatrio nel comune di residenza con foglio di via obbligatorio mediante accompagnamento coattivo, destinato a chi, fuori del proprio comune, “desta sospetto” con la sua condotta. Il T.U.L.P.S. del 1865 eluderà totalmente le seppur minime garanzie processuali prima concesse.

Infine nel 1894, lo stesso anno in cui il governo Crispi proclamava lo stato d’assedio in Sicilia per disciogliere l’organizzazione dei Fasci dei lavoratori, vennero emanate tre “leggi eccezionali” di pubblica sicurezza, ricordate come leggi “anti-anarchiche” che aggravarono le misure di prevenzione di polizia per i reati politici.

Il T.U.L.P.S. del 1865 cessò la sua validità nel 1895 e per ragioni politiche non verrà prorogato, almeno fino al 1924 in cui venne ripreso dall’impianto della polizia fascista. Sin dall’epoca liberale le misure di prevenzione vennero dunque elaborate per colpire soggetti additati come potenzialmente pericolosi per una appartenenza di classe o per condotte di vita (penalmente irrilevanti) contrarie ai valori predominanti di chi deteneva il potere. La nozione di pericolosità pubblica diverrà il criterio con cui giudicare una persona sulla basa di indizi, sospetti, personalità, caratteristiche fisiche, appartenenza a classi sociali o addirittura tipologie etniche (complice l’antropologia criminale).

2.  Misure di prevenzione di polizia e foglio di via durante il fascismo

Alfredo Rocco, esponente nazionalista del Partito fascista, portò a compimento il progetto di riforma e sviluppo sia del nuovo codice penale (Codice Rocco) che del nuovo Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, il T.U.L.P.S. del 1926, che saranno alcuni dei più forti strumenti a disposizione del fascismo nel processo di consolidamento del potere e “fascistizzazione” della società. Il T.U.L.P.S. del 1926, con sottotitolo “Provvedimenti per la difesa dello Stato”, segue gli attentati Lucetti e Zamboni a Mussolini. Proprio il T.U.L.P.S. del ’26 dedicherà ampio spazio alle misure di prevenzione, che basano la loro natura solamente sulla base del sospetto e quindi ben più funzionali per la repressione del dissenso politico rispetto alla normale disciplina penale. Questo nuovo T.U.L.P.S. recupererà le misure previste nel T.U.L.P.S. del 1865, ovvero l’ammonizione di polizia e il rimpatrio al proprio luogo di residenza con foglio di via obbligatorio. Inoltre l’art 185 della legge istituirà il confino di polizia, successore del vecchio domicilio coatto, da scontare attraverso il lavoro forzato in una colonia o in un comune del Regno da uno a cinque anni (rinnovabili nei confronti di soggetti ritenuti particolarmente pericolosi per non aver modificato le proprie convinzioni). Il fascismo fece da subito di queste misure le sue armi predilette.

Nel solo periodo novembre-dicembre 1926, subito dopo l’approvazione del nuovo T.U.L.P.S., vi furono ben 900 assegnazioni al confino. A differenza del vecchio istituto del domicilio coatto il confino poteva essere applicato immediatamente e non solo a seguito di una trasgressione alle prescrizioni dell’Autorità di P.S (ovvero ad un’ammonizione). Appariva inesistente qualsiasi parvenza del diritto di difesa. Per assurdo, si aveva parvenza di garanzie maggiori persino di fronte al Tribunale Speciale con competenza sui reati politici, istituito dal fascismo nel 1926. Per il confino, difatti, era previsto solo un ricorso alla Commissione di Appello composta da appartenenti alla polizia, ai carabinieri e alla stessa Milizia fascista. Tali misure di polizia, pur conservando le regole del vecchio sistema, vennero estese ben oltre una generica area di emarginazione sociale, diventando uno strumento cardine del controllo poliziesco del Fascismo contro i suoi oppositori. Come con tutti gli altri T.U.LP.S., passati e futuri, l’applicazione delle misure di prevenzione di polizia non richiedeva una responsabilità giudizialmente accertata ma soltanto una condotta tale che potesse costituire, vero o no che fosse, un pericolo per la sicurezza pubblica e l’ordine politico. Con l’ulteriore T.U.L.P.S. del 1931, emanato in un clima di enorme rafforzamento delle attività e del potere di polizia da parte del regime fascista, la disciplina delle misure di prevenzione resta sostanzialmente immutata rispetto al 1926 ma viene resa ancora più esplicita la possibilità di ammonire gli avversari politici.

In più si prevederà la possibilità dell’arresto immediato delle persone proposte per le misure di prevenzione e persino per i prosciolti da un reato per insufficienza di prove.

Dopo l’approvazione delle leggi razziali fasciste del 1938, il confino e le relative misure di prevenzione furono applicate anche agli ebrei e agli omosessuali, accusati di “attentato alla dignità della razza”. Anche le prostitute e i transessuali ricadevano nelle categorie proposte per le misure di prevenzione di polizia. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, si aggiunsero a questa lista di indesiderati dal regime anche i renitenti, gli irredentisti slavi, i prigionieri di guerra e i cittadini di stati nemici. Per l’agilità delle procedure e l’ampia discrezionalità offerta, le misure di prevenzione di polizia saranno dunque il mezzo più veloce per il fascismo per eliminare tutti i soggetti sgraditi al regime. 

Sconfitto il fascismo, si potrebbe pensare che una società sedicente democratica non abbia bisogno di leggi concepite quando ancora c’erano i Re e servite magistralmente per colpire le dissidenze interne durante una dittatura spietata ed autoritaria quale fu quella fascista. Chi lo pensasse però sbaglierebbe di grosso. Secondo i principi enunciati dall’art. 13 della legge del 1956 che istituì il nuovo T.U.L.P.S democratico, ‹‹l’applicazione delle misure di prevenzione (…) della presente legge importa gli stessi effetti conseguenziali prodotti dall’ammonizione e dall’assegnazione al confino secondo il precedente ordinamento››. Insomma, non solo è chiaro ma anche palesemente ostentato il debito che le misure di prevenzione repubblicane avranno con i vecchi istituti del regime fascista.

3.  Il foglio di via oggi

Finito il regime fascista per merito dei partigiani in armi, la repubblica ha infatti dimenticato presto questi ultimi, riprendendo intanto in mano il T.U.L.P.S. fascista che, tranne qualche insignificante modifica a cominciare dagli anni ’50, è stato di nuovo reso pienamente operativo. Già a partire dal Testo Unico delle Leggi di P.S. del 1956 all’epoca del governo Tambroni – governo sostenuto dai post-fascisti del MSI – le misure di prevenzione sono state dunque reintrodotte a pieno titolo nell’ordinamento italiano e per larghissima parte hanno ancora valore al giorno d’oggi.

Il T.U.L.P.S. del 1956 riprende in maniera pressoché uguale le misure previste dal T.U.L.P.S. fascista del 1931. Anche se la legge cambiò la terminologia con cui vennero chiamate queste misure (ma non certo la loro natura repressiva). Così l’ammonizione fu sostituita dalla diffida e il famigerato confino di polizia con l’istituto della sorveglianza speciale (con obbligo o divieto di soggiorno in un determinato luogo). Il nuovo T.U.L.P.S. mantenne del tutto inalterato il rimpatrio con foglio di via obbligatorio* nei confronti degli individui presumibilmente pericolosi per la sicurezza pubblica e che si trovino fuori dai luoghi di residenza, applicabile per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre.

La legge del 1956 istituì la divisione delle competenze per l’applicazione delle misure, dando competenza al questore per quanto riguarda la diffida e il rimpatrio con foglio di via obbligatorio (all’autorità giudiziaria invece per l’applicazione della sorveglianza speciale) e indicava, all’art.1, le categorie di persone che potevano essere raggiunte dai provvedimenti. A seguito di ripetute modifiche e aggiustamenti, una legge del 1988 oltre ad aver abrogato la diffida del questore sostituendola con lo strumento dell’avviso orale, ha ridotto a tre le categorie di individui a cui possono essere applicate le misure di prevenzione di polizia, con conseguente esclusione di alcune categorie di soggetti: gli oziosi e vagabondi, i soggetti dediti ad attività contrarie alla moralità pubblica ed al buon costume (anche se le questure d’Italia continuano a colpire senza tregua mendicanti, senza tetto e prostitute).

 Le categorie rimaste, a cui ancora oggi si fa riferimento per l’applicazione delle misure, sono:

1. coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, siano abitualmente dediti a traffici delittuosi;

2. coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;

3. coloro che, per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. 

PRESUPPOSTI PER L’APPLICAZIONE:
— appartenenza ad una delle tre categorie di cui all’art. 1, L. 1423/1956 come sostituito dall’art. 2, L. 3-8-1988, n. 327;
— che si tratti di persona pericolosa per la sicurezza pubblica;
— che questa persona si trovi fuori dalla propria residenza.

VALIDITÀ: La misura di rimpatrio con foglio di via obbligatorio , emessa dal Questore, ha durata non inferiore ad un anno e non superiore a 3 anni ed ha valore dal momento della notifica e riguarda anche il semplice transito nel comune dal quale si è stati cacciati. Per chi viola il foglio di via e viene trovato sul territorio del comune dal quale è stato espulso, la pena prevista va da uno a sei mesi di carcere.

RICORSI CONTRO IL FOGLIO DI VIA: La misura può essere modificata dal questore, riducendo la durata del divieto; è prevista la revoca del provvedimento sulla base di una diversa valutazione dei presupposti che lo hanno determinato; sono ammesse deroghe in presenza di eccezionali esigenze. Durante gli anni di validità del foglio di via è possibile chiedere permessi temporanei alla Questura, per ragioni di studio, lavoro od altro. Contro il provvedimento di rimpatrio con foglio di via obbligatorio è possibile presentare memorie alla questura, fare ricorso al Prefetto oppure al TAR (Tribunale Amministrativo Regionale, situato nel capoluogo di regione) e in ultima istanza al Consiglio di Stato. Molti sono scoraggiati dall’aspetto economico: solo il bollo che serve per fare ricorso al TAR costa oggi circa 700 euro ed ogni anno il prezzo aumenta, mentre le persone a cui le questure applicano queste misure sono comunque quasi sempre certamente non possidenti. Nel ricorso è importante poter dimostrare un collegamento fra il destinatario della misura e il comune dal quale lo si vuole allontanare, ad esempio il possesso della residenza, di un contratto d’affitto, di un contratto di lavoro, di legami parentali e affettivi dimostrabili, delle carte che attestino il pagamento delle rette universitarie, ecc. Anche se, va detto, gli esiti del ricorso sono sempre dettati dall’enorme discrezionalità del Prefetto e del giudice amministrativo.

4. Corsi e ricorsi. Esempi di foglio di via contro i movimenti dal dopoguerra.

  Movimento Beat – A metà anni sessanta, alcuni anarchici e altre persone gravitanti nel movimento beat diedero vita a “Mondo Beat”, considerata la prima rivista underground italiana, che inizia le pubblicazioni nel novembre 1966 (in tutto ne uscirono sette numeri). Ben presto, la rivista divenne la voce del movimento dei “capelloni” (com’erano chiamati) e ispiratrice di una libera comunità denominata dai suoi abitanti “il campeggio”, nell’allora periferia di Milano, in via Ripamonti. La stampa “benpensante” iniziò una forte campagna contro la tendopoli (definita spregiativamente “Barbonia City”) accusandola di contravvenire alle regole della moralità (libero amore) e di rappresentare un pericolo per la città a causa di “precarie” condizioni igieniche. Squadre della polizia provvidero a perquisire sistematicamente la tendopoli. In seguito ad alcune perquisizioni, il 7 marzo 1967 un centinaio di “capelloni” inscena una manifestazione per protestare contro i metodi della Polizia e viene caricata. Il 12 giugno 1967 la tendopoli di via Ripamonti viene sgomberata dalla forze di Polizia e rasa al suolo dagli operatori comunali, intervenuti con i lanciafiamme. Molti degli occupanti vennero fermati ed allontanati dalla città con foglio di via. Già il 19 novembre 1966 Vittorio Di Russo, fondatore del movimento, che era già stato diffidato dalla Questura dal soggiornare in Milano, venne arrestato per contravvenzione alla diffida. Rinchiuso per una settimana nelle segrete della Questura di Milano, subì percosse e torture mentali che gli avrebbero lasciato un trauma profondo. Nel gennaio ’67, intanto, Mondo Beat trova un locale a pochi passi da Piazza Cinque Giornate. Viene battezzato “La Cava”, aperta giorno e notte. Fin dall’inizio si crea un andirivieni di giovani del giro di Milano e nei giorni successivi da ogni parte dell’Italia del Nord. Si trova anche una tipografia vicino alla Cava, disposta a stampare a prezzo imbattibile i numeri di Mondo Beat. Sabato 18 febbraio, però, la Questura accerchia la Cava, dispiegando nelle strade adiacenti un gran numero di poliziotti in borghese. Partono diffide e fogli di via. Quella delle diffide e dei fogli di via diventò presto prassi poliziesca nelle città dove si era propagato il movimento beat: Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Padova, Trento…

Terremoto Irpinia 1980 – Il terremoto in Irpinia del 1980 che si verificò il 23 novembre 1980 e che causò circa 280.000 sfollati e 2.914 morti, è senz’altro uno dei più spaventosi mai occorsi. Da subito un ampia solidarietà spontanea e umana si mise in moto, senza aspettare l’intervento istituzionale dello stato. Ai militanti della sinistra extraparlamentare e agli anarchici si uni la popolazione che rispose all’appello alla solidarietà. L’impegno politico rivoluzionario che molti compagni portarono in quei giorni fu una solidarietà attiva, che ben presto divenne scomoda per coloro che volevano gettarsi nel grande affare della ricostruzione. Fu così che dopo un mese di impegno, alla vigilia del Natale del’80 nelle tende dei compagni irruppero i carabinieri che rifilarono il foglio di via ai volontari e fecero piazza pulita di coloro che assieme alle popolazioni erano intenti a denunciare affaristi, speculatori e politici corrotti. A portare il foglio di via ai compagni furono quei carabinieri che il mese prima, grazie alla mensa montata dagli stessi autonomi romani, riuscirono a mangiare un pasto caldo, essendo stati i paesi completamente abbandonati a se stessi dagli aiuti ufficiali. Un bel ringraziamento. Una bella lezione per il futuro.

  Terremoto L’Aquila 2009 – Un episodio simile a quello riportato a destra è toccato anche agli sfollati del terremoto dell’Aquila del 2009. La consegna del foglio di via, di punto in bianco, nel settembre 2009, agli sfollati delle tendopoli con l’imposizione dei paesi in cui dovevano trasferirsi suscitò proteste sentite alla tendopoli di piazza D’Armi, il più grande centro d’accoglienza della Protezione Civile nato dopo il sisma del 6 aprile, in cui vi erano radunate più di mille persone. Tensione vi furono tra gli ultimi cinquanta nuclei familiari rimasti e polizia, carabinieri e guardia di finanza entrati per consegnare i fogli di notifica con l’ordine di lasciare il campo e raggiungere le destinazioni a cui erano stati assegnati d’autorità. Destinazioni distanti rispetto al posto di lavoro. In seguito alle tensioni, la Protezione Civile vietò l’accesso al campo ai giornalisti e lasciò campo aperto alla “persuasione” della polizia.

 5. L’applicazione del foglio di via ai movimenti oggi.
I casi più eclatanti.

Quella qui riportata non vuole essere una cronaca esauriente, cosa del resto assai ardua vista l’alto numero di provvedimenti di questo tipo comminati in questi ultimi anni, ma solo un esempio del modus operandi delle questure. 

  NO TAV – Contro il movimento NO TAV, soprattutto negli ultimi anni, in concomitanza con l’edificazione del cantiere per il tunnel esplorativo nei boschi vicini a Chiomonte (TO), si è dispiegata tutta la forza e gli stratagemmi di cui il potere è capace. Denunce, cariche, arresti, manganellamenti selvaggi, lacrimogeni sparati ad altezza uomo, minacce mafiose, avvisi orali e, naturalmente, fogli di via. Sono ormai decine e decine i fogli di via per questa lotta ventennale. Un discreto numero di No Tav si sono visti notificare nell’agosto 2012 provvedimenti di divieto di entrata in ben 7 comuni della Val Susa. Il riferimento è alla notte tra il 23 e il 24 luglio 2012 quando centinaia di No Tav (e no nuke!) si mobilitarono contro il passaggio del treno di scorie nucleari transitanti lungo la linea ferroviaria che dalla Val Susa porta in Francia. Ai No Tav venne contestato il “tentativo di avvicinarsi alla sede dei binari per impedire il transito dei convogli”. Viene inoltre precisato che “quel gruppo di persone identificate era proveniente dal campeggio di Chiomonte. La semplice presenza nel campeggio è dunque sufficiente a determinare la pericolosità sociale. Addirittura il 6 marzo 2012 è stato notificato il foglio di via a Turi Vaccaro, nota figura pacifista che da sempre accompagna le manifestazioni No Tav. Fermato dalla DIGOS a Torino, dove si era tenuta la riunione organizzativa per uno sciopero della fame collettivo contro il Tav, numerosi agenti lo hanno portato in questura per notificargli il foglio di via da Chiomonte.
Un altro foglio di via per motivazioni politiche è stato dato ad Ancona a marzo 2012. L’Assemblea Permanente Movimenti Marche promosse, come avvenne in diverse città italiane, una manifestazione di solidarietà nei confronti del Movimento No Tav, dando appuntamento alla stazione di Ancona. Appena alcune decine di manifestanti entrarono nell’atrio una carica di agenti in tenuta antisommossa coinvolse i presenti con una buona dose di manganellate. Alcuni giovani rimasero feriti, tra cui l’attivista in questione che ha ricevuto il foglio di via da Ancona. La questura in quel frangente motivò il foglio di via perché  “il prevenendo risulta nelle banche dati econometriche avere comunicato nominalmente un reddito imponibile irrisorio”. Il realtà il ragazzo lavorava con un contratto a progetto, tra l’altro proprio nel comune di Ancona, e questo suo essere precario, condizione comune ad una fetta crescente della popolazione italiana, lo rende per la questura automaticamente un potenziale soggetto pericoloso.

   NO MUOS – I fogli di via sono toccati anche agli attivisti del movimento NO MUOS che stanno lottando contro la costruzione di una mega-antenna, il Mobile User Objective System (MUOS), nella base USA di Niscemi (Sicilia). Tra gennaio e maggio del 2013, ogni giorno infatti i manifestanti presidiavano il passaggio ai camion che si dirigevano verso lo stabilimento militare con lo scopo di fermare o quantomeno rallentare i lavori per l’impianto nocivo. I presidianti sono stati colpiti negli anni da diversi fogli di via. Uno di questi è per un pacifista arrestato dopo essersi arrampicato su una delle antenne presenti dentro la base.

   LOTTE DEI LAVORATORI – I fogli di via non risparmiano nemmeno i lavoratori in lotta e i loro solidali. Aldo Milani, coordinatore nazionale del Si.Cobas, ha ricevuto ad aprile del 2013 dalla questura di Piacenza un foglio di via per tre anni. Stessa misura per due altre persone ree di avere partecipato alle lotte prima della TNT e GLS e poi dei lavoratori Ikea nel parmense. La “colpa” è di aver dato sostegno alla lotta dei lavoratori dell’Ikea: una lotta per respingere i licenziamenti, contro caporalato e supersfruttamento. Altra città, stesso copione: a dicembre  2015 arrivano per 10 persone altrettante procedure per l’attivazione della misura del “foglio di via” dal comune di Cesena. Le persone sono attivisti sindacali di base dell’ADL Cobas, militanti del PCL Romagna e dello Spazio Libertario “Sole e Baleno” e semplici solidali. La “colpa” di queste persone: essere stati presenti a picchetti di lavoratori in lotta nel settore della logistica per dare loro la propria solidarietà, dopo che questi erano stati licenziati per aver chiesto miglioramenti in campo lavorativo. I preavvisi vengono revocati a seguito di mobilitazioni. Con questi provvedimenti gli apparati repressivi tentano di fermare la solidarietà alle lotte come quella dei lavoratori immigrati delle cooperative del settore della logistica.

   ATTIVISTI ANIMALISTI E AMBIENTALISTI – Nel comune di Bellegra, paese della provincia romana, le forze dell’ordine locali probabilmente in preda alla noia si sono accanite nei confronti della fondazione Valle Vegan, un’associazione che offre una casa ed una vita dignitosa a centinaia di animali. Le visite che i carabinieri hanno fatto agli abitanti della comune sono state sempre maggiori finché i tutori dell’ordine hanno ben pensato di lanciare un messaggio chiaro: fogli di via per potenziali reati politici, punendo la sola intenzione di visitare Valle Vegan. É toccato ad un ragazzo che stava recandosi alla comune nell’ottobre 2009: perquisizioni, fermi interminabili in caserma e, per finire, espulsione dal comune per un anno e mezzo. Che i fogli di via colpiscano sempre di più l’attivismo politico è indubbio. Non solo anarchici, comunisti e appartenenti alla sinistra radicale ma anche attivisti appartenenti ad associazioni che certamente non si può dire portino avanti progetti rivoluzionario. Il foglio di via più assurdo è stato imposto per due anni dal comune di Roma ad un attivista di Greenpeace, Salvatore Barbera, dopo un’azione davanti a Palazzo Chigi per denunciare l’impatto dei cambiamenti climatici. Il foglio di via, notificato ad ottobre 2011, viene motivato con il reiterarsi del reato di manifestazione non autorizzata ovvero azioni nonviolente della campagna per il Referendum sul nucleare di giugno dello stesso anno. Nel maggio del 2011, sempre ad alcuni attivisti di Greenpeace, sono stati notificati un foglio di via della durata di 3 anni e 7 D.A.SPO (cioè l’interdizione dagli stadi) per un’altra azione dimostrativa allo stadio olimpico a Roma, per l’affissione di uno striscione con la scritta “Da Milano a Palermo, fermiamo il nucleare”.

   NO BORDERS – Nell’estate del 2015, in seguito alla chiusura del confine francese e alla congestione del flusso migratorio alla frontiera, a Ventimiglia (Ponte san Ludovico) prende vita il Presidio Permanente No Borders, un campo autogestito da migranti e solidali che da giugno a settembre diventa centro propulsore di una lotta per la libertà di movimento, oltre che un luogo di sperimentazione di nuove pratiche di solidarietà radicale. Tra luglio e agosto, con l’intensificarsi dei respingimenti dalla Francia all’Italia, hanno luogo una serie di azioni pacifiche alla frontiera durante le quali migranti ed europei bloccano la strada al grido di “We are not going back!”. Il 10 di agosto, un gruppo di solidali cerca di impedire il passaggio dei blindati che riportano i migranti in territorio italiano, venti di loro sono arrestati da due cordoni di polizia in antisommossa, e passano la notte in commissariato, dove vengono loro notificate le denunce per invasione e contestualmente, vengono consegnati sei fogli di via obbligatori con diffida per tre anni dal comune di Ventimiglia. Il provvedimento preventivo è giustificato dalla presunta pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblica, dimostrata usando i precedenti di polizia di alcuni, e la frequentazione del Presidio Permanente come evidenze. Nei mesi successivi altri cinque fogli di via colpiscono gli attivisti. Tra i casi più eclatanti quello di due persone residenti a Dolceacqua, comune quasi limitrofo a Ventimiglia, che si vedono ora impedito l’accesso alla “città” più vicina, in cui lavorano e coltivano relazioni, per il solo fatto di essere solidali con i migranti senza attendere l’approvazione delle autorità. Chi lotta per la libertà di movimento si vede impedita quella stessa libertà, coerentemente con la logica fascista della messa al bando dei dissidenti.

6.  L’applicazione del foglio di via all’area libertaria

Gli anarchici sono senz’altro tra i bersagli preferiti dalle questure, che quando possono li colpiscono con le misure di prevenzione di polizia. Si contano ormai a centinaia i fogli di via per l’area libertaria combattiva. Contro queste misure le armi migliori sono la solidarietà e la mobilitazione. 

   Bologna – Nel corso del 2011 una repressione senza pari si scagliò contro il movimento anarchico bolognese. Venne chiuso e posto sotto sequestro lo spazio “Fuoriluogo”, un circolo che organizzava eventi aperti al pubblico, considerato dagli inquirenti un “covo” dedito alla commissione di delitti. Alcune persone vennero tratte in arresto, altre colpite da misure coercitive come obbligo o divieto di dimora. Per altri, non direttamente colpiti dai suddetti procedimenti, furono adottati i fogli di via. Una ventina più o meno. Tutto questo per distruggere le lotte portate avanti dagli anarchici a Bologna, contro carcere e centro di identificazione ed espulsione per immigrati. I fogli di via furono notificati allo stesso gruppo che frequentava il circolo “Fuoriluogo” ma con le motivazioni più disparate, dalla partecipazione a cortei e presidi autorizzati o meno che fossero, fino a fatti totalmente inventati. Ovviamente l’obiettivo della questura, anche in questo caso, era quello di tagliare i ponti, distruggere amicizie, affinità, legami.

   Genova – Alcuni anarchici, incontrando Sergio Cofferati per le strade di Genova nell’ottobre del 2009 e, avendo visto come aveva ridotto la città di Bologna quand’era sindaco, gli urlavano quel che pensavano del suo operato. Immediatamente spuntano le forze dell’ordine che con massima solerzia portavano in questura un ragazzo. Dopo un’attesa di alcune ore anche a lui viene consegnato un foglio di via dal comune di Genova valido per 3 anni.   Milano – Nell’agosto 2008 la questura milanese decise di adottare un foglio di via nei confronti di un compagno del comitato antirazzista milanese in seguito ad alcune delle lotte più significative che il movimento degli immigrati ha prodotto in quella città. Il dispositivo era maturato in riferimento alla partecipazione alle lotte di resistenza dei rom, di supporto alle rivolte al CIE di via Corelli, degli scioperi selvaggi dei lavoratori immigrati a Origgio e a Corteolona, della lotta dei rifugiati di Bruzzano che hanno affrontato a mani nude le cariche della polizia per difendere la propria esistenza. Tutte vicende in cui gli antirazzisti milanesi hanno dato il massimo delle proprie energie. In seguito una sentenza del TAR annullerà tale provvedimento considerandolo privo di fondamento giuridico e frutto di una volontà persecutoria politica ben precisa.

   Ferrara – Il pomeriggio del 2 giugno 2009 un compagno anarchico viene tratto in arresto a Ferrara, accusato di essersi intrufolato in pieno giorno nella sede cittadina dei razzisti della Lega Nord e per averla “messa a soqquadro”. Dopo due giorni il compagno viene scarcerato con obbligo di dimora nel suo comune di residenza, sempre in provincia di Ferrara, e con il divieto di uscire dalla propria abitazione dalle 19.00 alle 7.00. Nel processo che ne seguì il compagno venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto. In carcere, però, gli era stato notificato intanto il foglio di via per tre anni dal comune di Ferrara, per non avervi la residenza o un lavoro stabile.

   Ravenna – Nel 2012, il 16 aprile, si tenne a Ravenna un corteo spontaneo per opporsi ad una fiaccolata precedentemente convocata dal partito di estrema destra Forza Nuova, che intendeva con questa sceneggiata applaudire i carabinieri che avevano ammazzato, appena qualche giorno prima (era la notte di Pasqua) un ragazzo tunisino – Hamdi Ben Hassen – reo di non essersi fermato ad un posto di blocco.  Un gruppo di antifascisti di diverse città, sia anarchici che comunisti, scese in strada. Forza Nuova non ebbe il coraggio di presentarsi ma gli agenti in antisommossa, accorsi già da qualche giorno da Bologna e dalle Marche per militarizzare la città dopo le manifestazioni di rabbia degli amici di Hamdi, circondarono gli antifascisti e li “deportarono” in questura caricandoli di peso su una corriera. A fronteggiare trenta persone armate di striscioni, volantini e slogan una pletora di digossini, polizia municipale, polizia di stato e carabinieri in assetto antisommossa. La sfilza di denunce per “manifestazione non autorizzata” per una 30ina di compagni finì con il solito corollario di avvisi orali e fogli di via per i non residenti a Ravenna, della durata di due anni. Le notifiche dei fogli di via appaiono per altro legate al fatto che alcuni dei destinatari facevano parte del Coordinamento No Cmc contro la cooperativa aggiudicataria dell’appalto per la costruzione del tunnel per l’alta velocità in Val Susa. Le misure preventive, infatti, avvenivano alla vigilia di una grossa manifestazione No-Tav a Ravenna contro la Cmc.

   Trento e Rovereto – I fogli di via emessi a Trento e nel roveretano per gli anarchici si contano ormai a decine. Nel novembre 2009 una quindicina di compagni e compagne anarchici/e saranno denunciate per inosservanza dei fogli di via, per aver partecipato a manifestazioni in difesa degli spazi occupati e contro i fogli di via che avevano già colpito alcuni altri compagni, in occasione dell’occupazione e sgombero dell’Assillo. Molti dei compagni colpiti, comunque, saranno assolti dal tribunale amministrativo o penale perché le misure, in molti casi, saranno giudicate illegittime. In alcuni casi per vizi di forma, in altri perché non dimostrata la pericolosità sociale, in altri ancora perché notificati a persone residenti nello stesso comune da cui le si voleva allontanare.

   Firenze – Nell’ottobre 2005, a Firenze, in conseguenza dello sgombero dello storico Circolo Anarchico di Vicolo del Panico, presente in città da vent’anni, una decina di anarchici ricevettero il foglio di via da Firenze per la durata di tre anni. Decisi a rimanere in città, da subito decisero di violarlo. Dopo due anni e mezzo costellati da numerosi fermi, una compagna è stata condannata dalla Corte d’Assise di Firenze a due mesi di reclusione con la condizionale per non essersi allontanata da Firenze. Un altro compagno è stato condannato a un mese per lo stesso reato. La DIGOS fiorentina ha poi emesso un foglio di via di tre anni per un compagno accusato di aver protestato contro un banchetto di “Giovane Italia” sulle Foibe, iniziativa revisionista su quello che è stato il fascismo in terra di Iugoslavia.

   Forlì – 4 fogli di via identici raggiungono nel 2013 compagni e compagne libertari/e per aver partecipato a manifestazioni non preavvisate sia antifasciste che per protestare contro lo sgombero del MaceriA occupato (un edificio di tre piani occupato nel novembre 2012). Per questi fatti a 51 persone verranno recapitati altrettanti avvisi di garanzia. Tra lo stesso gruppo di persone vengono spiccati tre “avvisi orali” con l’intimazione di cambiare comportamento e frequentazioni. Nel 2015 a questi quattro fogli di via se ne aggiungeranno altri quattro, ancora per manifestazioni antifasciste contro Casapound e Forza Nuova, nei confronti di tre anarchici (per uno il foglio di via riguarderà l’intero territorio provinciale di ForlìCesena) ed una militante di Rifondazione Comunista. A seguito della violazione di questi fogli di via, due compagni saranno denunciati penalmente.

   Venezia – Anche nella città lagunare i fogli di via per anarchici e anarchiche sono uno dei mezzi preferiti dalla questura locale. A seguito di occupazioni di spazi, manifestazioni e per la lotta contro il carcere di Santa Maria Maggiore vengono spiccati nel 2015 una ventina di fogli di via a cui i compagni e le compagne rispondono con cortei spontanei e partecipati.

   Udine – A gennaio 2016 sono stati notificati a un anarchico della provincia di Udine i fogli di via definitivi per 3 anni da Venezia (per la lotta contro il carcere di Santa Maria Maggiore, in totale una ventina di fogli) e da Udine città (per contrasto a iniziative del P.D. e di R.S.I.-Movimento Sociale-Fiamma Nazionale e per corteo contro la questura e la repressione). E’ il terzo foglio di via da Udine per anarchici negli ultimi tempi.

7. L’applicazione del foglio di via ad altri soggetti indesiderati.

  Ovviamente le misure di prevenzione di polizia non colpiscono solo gli attivisti politici. Fra i soggetti destinatari di tali provvedimenti, al primo posto ci sono i senza tetto, i mendicanti e i senza reddito, ovvero le categorie sociali più povere e sotto-proletarie, di cui sarebbe impresa ardua dare complessivamente un quadro dei procedimenti contro di loro, dato l’alto numero degli stessi. Altre categorie a cui spesso vengono affibbiati i fogli di via sono le seguenti, di cui facciamo qualche brevissimo cenno preso a campione. 

  ALLE PROSTITUTE – Il 4 agosto 2008 il questore di Rimini si è richiamato a due sentenze della Cassazione del ’96 che estendevano alle prostitute la legge del 1956 sui soggetti pericolosi e, come tali, rimpatriabili con foglio di via obbligatorio. Il questore Antonio Pezzano aveva applicato un emendamento che il presidente della Commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, del PDL, aveva presentato al decreto sicurezza, ma che poi aveva ritirato in seguito alle polemiche che ne erano nate. Il questore di Rimini, applicando questa misura, nel solo mese di luglio aveva cosi’ emesso fogli di via obbligatori per 47 prostitute straniere. Fortunatamente per molte di loro il provvedimento decadrà a seguito dei ricorsi presentati al TAR. Vi è da dire che anche se la prostituzione non è reato (lo è solo l’induzione e lo sfruttamento della prostituzione) ed il riferimento al turbamento della morale pubblica è stato tolto nei criteri per l’applicazione del foglio di via, i Questori dimenticano spesso questo fatto e continuano scrupolosamente a perseguire chi si dedica alla professione che è detta la più vecchia del mondo.

 A ROM e SINTI – Nell’ottobre 2009 la questura di Cosenza disponeva 96 fogli di via dal  territorio italiano per altrettanti Rom abitanti nel villaggio sulla riva sinistra del fiume Crati. Scatta la mobilitazione delle associazioni antirazziste. I rom prendono la parola in prima  persona. Il tribunale di Cosenza accoglie i ricorsi contro i fogli di via. Sono cittadini europei comunitari e non si possono espellere dal territorio italiano. La cosa non ha impedito comunque che Procura e amministrazione comunale procedessero più volte a ripetuti sgomberi e tentativi di sgombero del villaggio rom sul fiume Crati e l’abbattimento delle case di fortuna. Prostitute e Rom, assieme agli stranieri comunitari (che perciò non possono essere espulsi con le procedure “normali”) continuano ad essere tra i soggetti più facilmente presi di mira da questi provvedimenti.

  AI “RAVER” – L’ultimo esempio di cui parliamo, vale la pena includerlo in questo sommario elenco poiché espressione di una ripresa degli spazi liberi dall’autorità, che l’autorità stessa reprime. I rave party sono feste “illegali” all’aperto o in spazi abbandonati frequentemente represse dalle forze dell’ordine. Un esempio sono i 37 fogli di via per la durata di un anno notificati a Ravenna a novembre 2012 ad altrettanti giovani (di cui quattro minorenni e che quindi non potrebbero legalmente essere destinatari di misure di prevenzione) identificati il 15 agosto dello stesso anno in un party organizzato nella pineta di Classe (Ravenna).

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Il giudizio di pericolosità sociale
Il giudizio di pericolosità sociale prevede una valutazione dell’intera personalità del soggetto, della sua condotta, dell’associazione con altri soggetti socialmente pericolosi, delle denunce per gravi reati, del tenore di vita non consono alle disponibilità economiche e di tutte le manifestazioni sociali della vita le quali possono anche consistere in comportamenti moralmente riprovevoli, privi cioè di rilevanza penale, ma idonei a legittimare presunzioni o anche semplici sospetti di pericolosità. Il giudizio di pericolosità teoricamente deve attenersi ad elementi di fatto e deve comunque essere oggettivamente motivabile; deve inoltre essere compiuto tenendo conto dell’attualità della pericolosità al momento di applicazione delle misure di prevenzione. Questo però non avviene quasi mai, e il ricorso al foglio di via avviene non tanto in base ad una supposta pericolosità pubblica ma secondo la necessità delle questure che possono sì colpire persone a loro invise o che il cosiddetto cittadino “perbene” non vuole vedere o sentire nei luoghi che frequenta.

Mostra tratta dall’opuscolo
“METTERE AL BANDO – STORIA ED EVOLUZIONE DI UNA MISURA INFAME CONTRO LE RIBELLIONI SOCIALI E LA DISSIDENZA POLITICA”,
stampato in proprio nel settembre 2013 in Romagna.
Riveduta e aggiornata ad aprile 2016

RADICAL MIGRANT SOLIDARITY [ITA – 2/4]

Parte 2 – I CONFINI TRA NOI

Le aree di frontiera come Calais o Ventimiglia, sono caratterizzate da una grande concentrazione di migranti, di mafiosi e di trafficanti e da un’intensa attività di polizia. I loro marcatori geografici sono porti o frontiere di terra, campi occupati e centri di detenzione. Sono incroci chiave dei percorsi di migrazione e delle vie del contrabbando, e perciò sono già stati al centro di percorsi di lavoro solidale.

Quando CSM ha iniziato a lavorare a Calais, nell’estate del 2009, il numero di migranti in città aveva raggiunto il suo picco, e gli ostacoli al lavoro di cooperazione erano più impegnativi. Allora circa 2.000 persone vivevano in campi occupati al, con più di 800 afgani in uno solo di questi. Il numero di bambini e adolescenti era elevato: quasi la metà dei 279 arrestati durante lo sgombero del campo afgano, a settembre, erano minori non accompagnati.

Il governo britannico stava delegando la guerra contro i sans-papiers – che si è manifestata nella continua persecuzione dei migranti, che prosegue ancora oggi – affidandola ai reparti di PAF e CRS.

Lo Stato francese dichiarò la sua intenzione di rendere l’area ‘migrant-free‘ entro la fine del 2009, il progetto venne realizzato nella forma di ripetuti arresti e della distruzione di campi e case occupate. Fu in questo contesto che gli attivisti No Borders si sono presentati ai migranti, hanno spiegato il loro intenzioni, e hanno tentato di superare le diffidenze.

Supponendo di lavorare sulla base dei principi precedentemente descritti, e di avere una comprensione relativamente buona della situazione in cui siamo coinvolti, rimangono tuttavia un certo numero di altri potenziali ostacoli nel lavoro con i migranti privi di documenti.

Ne analizziamo quattro che abbiamo incontrato a Calais.

Fiducia

Poichè la sfiducia può essere un meccanismo chiave di sopravvivenza per i sans-papiers, è molto importante evitare di fare domande inutili. Si può essere tentati di farlo, soprattutto se siete nuovi a un posto e vi sentite nervosi o a disagio. Non solo è irrispettoso, ma rischia di farti apparire ai loro occhi come un poliziotto.

A Calais, conquistare la fiducia dei migranti è stato il problema più grande e più ricorrente all’inizio del nostro percorso, per una serie di ragioni.

Come accennato in precedenza, al tempo c’era un numero maggiore di migranti nella zona, e la maggior parte di loro erano giovani uomini afghani che parlavano poco inglese. Questi ostacoli linguistici hanno reso difficile la comunicazione e ci sono voluti diversi mesi per sviluppare relazioni individuali. In più c’era la nostra inesperienza, la popolazione in continuo cambiamento, e il fatto che

il campo Pashtun (afgano) campo era sotto il controllo della mafia, la quale diffondeva spesso false notizie e voci negative su di noi.

E’ importante comprendere il contesto in cui sorgono questi tipi di problemi per raggiungere un rapporto di fiducia e godere di buona reputazione tra i migranti. Dobbiamo sempre supporre c’è accadono molte più cose di quante riusciamo a controllarne, e accettare che non abbiamo bisogno di sapere tutto. Consigliare alle persone di non rivelare più informazioni del necessario può essere anche un modo rapido per costruire fiducia.

Oltre alla curiosità eccessiva, un altra cosa che aumenta la sfiducia nei vostri confronti è l’utilizzo di apparecchi per foto e video in presenza di migranti, che potrebbero scambiarvi per giornalisti. A Calais usiamo le telecamere solo per monitorare la polizia, e questo è chiaramente spiegato ai migranti. Fotografare i migranti irregolari, soprattutto quando vivono per le strade, è un’altro degli atteggiamenti che aggravano una situazione già di per sè debilitante. Molti simpatizzanti sembrano non capirlo e gli attivisti non dovrebbero esitare a spiegare perché è inadeguato fotografare o filmare persone.

Allo stesso modo, non lavoriamo pubblicamente con i giornalisti a Calais, neanche con quelli amici, perché consideriamo troppo elevato il rischio per le nostre relazioni. Giornalisti, ricercatori e fotografi spesso cercano di usare noi come intermediari, ci chiedono di presentare loro i migranti, e dobbiamo spesso lottare con loro per chiarire quando i migranti non vogliono essere intervistati, fotografati, o filmati.

Nel particolare contesto del lavoro con i rifugiati, abbiamo scoperto che l’associazione con fotografi tende a non essere compatibile con il nostro attivismo. A meno che i migranti non abbiano espressamente chiesto l’attenzione dei media, le nostre ragioni per essere lì devono rimanere inequivocabilmente chiare alla popolazione in continua evoluzione.

Privilegio

Abbiamo bisogno non solo di riconoscere il nostro privilegio e sfruttarlo, ma di farlo in un modo che sfida le gerarchie esistenti. A volte, sarà dolorosamente evidente a tutti che vi è un enorme divario tra noi, anche se stiamo cercando di creare le condizioni per demolire le gerarchie.

E ‘difficile non sentirsi in colpa ad essere i soli, nel campo, a non dover fuggire dalla polizia, i soli a potersi ritirare in un posto sicuro per fare una doccia calda e bere una tazza di tè, quando ci sentiamo stanchi, i soli a poter infine tornare a casa quando ne abbiamo abbastanza.

Alcuni ritengono che la cosa moralmente giusta da fare sia mostrare solidarietà diretta restando sul campo con i migranti, dormire nelle giungle, mangiare lo stesso cibo, e così via. Questa è una parte importante del nostro lavoro a Calais, non possiamo dimenticare che è il fatto di avere questi privilegi rende possibile il nostro lavoro. Tuttavia, non sono solo gli attivisti sul campo a fare la differenza, ma anche quelli che organizzano benefit, raccolgono denaro e rifornimenti, e pubblicizzano la campagna organizzando serate di informazione. Anche se può dare la sensazione di non fare abbastanza, è comunque una parte importante del lavoro: non si può mantenere una presenza efficace a lungo termine senza un posto dove stare, o provare a rimediare alle carenze degli enti di beneficenza senza il denaro e i materiali raccolti dai compagni che lavorano a casa.

Non è possibile rinunciare al privilegio finchè si posseggono ancora uno o più dei tratti che ti rendono superiore ai migranti, agli occhi delle autorità. Quello che è importante è lottare per un mondo senza queste gerarchie … e se possiamo usare la nostra posizione per sovvertire particolari privilegi, allora perché non farlo?

Di tanto in tanto, le amicizie tra europei e migranti si sviluppano con enormi disuguaglianze pratiche che possono complicarsi, in particolare in termini di dipendenza. È naturale e meraviglioso non controllare le amicizie a Calais, ma è importante tenere alcune cose in mente. Prima o poi, attivisti e migranti, partiranno lasciandosi alle spalle amicizie e relazioni. E’ confortante l’idea che i nostri amici riescano ad attraversare il confine, ma una volta dall’altra parte non sarà facile mantenere i contatti.

Ma spesso dopo mesi di permanenza al campo sono ancora lì, depressi, disillusi, o forse anche risentiti della tua libertà. Quando arriva il momento di ripartire, ci sono domande inevitabili: “Tu sei libero, puoi venire qui ogni volta che vuoi – io non ho nulla, quindi perché non rimani qui con me?

Quando si tratta di persone vulnerabili, soprattutto se sono giovani, vale la pena pensare a quale effetto queste dipendenze possono avere. Se si può parlare la stessa lingua e discutere delle difficoltà della situazione è un conto, ma in luoghi come Calais è facile arrivare a conoscere persone abbastanza bene con solo poche parole in comune. Telefonarsi ogni pochi giorni è un modo di mantenere un rapporto di amicizia, ma resta la questione degli effetti di una crescente dipendenza se la persona non riesce ad attraversare il confine per mesi o anni.

Tutti i rapporti mutano, la comunicazione e le aspettative cambiano notevolmente, e possono nascere splendide amicizie. Ma portare ogni rapporto a questo livello può condurre a complicazioni. Anche se rispettare la vulnerabilità della persona non significa necessariamente sviluppare meno solidarietà reciproca o una relazione meno positiva, tuttavia, data la nostra posizione privilegiata, vi è più onere su di noi per quanto riguarda la comprensione e il rispetto delle esigenze di persone che vivono nella privazione e hanno subìto traumi.

E’ importante riconoscere il privilegio e valutare i suoi effetti sulle nostre relazioni, ma è anche inutile, semplicistico e ingenuo inserire in blocco i sans-papier in una singola classe di soggetti svantaggiati.

Inutile perché può indurre nei migranti un senso di vergogna per la propria condizione o atteggiamenti di deferenza verso gli europei in genere. Distinguere le persone esclusivamente secondo la scala dei privilegi ignora l’umanità di quelli con cui stiamo lavorando, e contribuisce a rafforzare le divisioni.


E’ anche ingenuo perché il privilegio esiste in varie forme, come i privilegi di genere o economici. I campi a Calais sono quasi esclusivamente di sesso maschile; in molte delle strutture sociali dei paesi di origine dei migranti le donne vengono generalmente lasciate indietro o sono incapaci di finanziare e organizzare il proprio viaggio. Le donne migranti sono quindi una netta minoranza nelle giungle, e corrono più rischi per le strade se vengono separate dai loro compagni maschi, come spesso avviene.

Inoltre molti migranti in transito in Europa sono relativamente benestanti nei loro paesi poiché questi viaggi costano migliaia di euro. Ci sono anche migranti ricchi che non possono ottenere un visto per altri motivi, come pure coloro che realizzano un profitto trafficando alla frontiera.

C’è un certo filone del discorso antirazzista militante, negli Stati Uniti in particolare, che suggerisce che tutti i bianchi siano intrinsecamente razzisti, e alcuni, come il collettivo Dissenso Europeo, sostengono addirittura che chi combatte il razzismo dovrebbe accettare una leadership nera. Questa retorica è controproducente e carica di liberalismo radicale e di politica della colpa. Il concetto di razzismo innato dei bianchi e il suggerimento che dovremmo accettare una gerarchia perché al vertice ci sono le minoranze più svantaggiate non solo rispecchia un atteggiamento condiscendente ma perpetua distinzioni sulla base del colore, così come il più ampio e più fondamentale problema della gerarchia stessa. Un’analisi così estrema non ha trovato molto riscontro tra i No Borders in Europa, abbiamo occasionalmente incontrato prospettive che compensavano il privilegio attraverso reticenza e inazione in modo da consentire ai migranti di prendere l’iniziativa. Non vi è nulla di male nel fare sforzi supplementari per lavorare in modo più inclusivo possibile, ma dobbiamo diffidare da qualsiasi approccio che esprima senso di colpa o che comporti di tenere per noi le nostre opinioni in cambio del privilegio. Noi siamo intenzionati a lavorare da pari, senza mai deferire agli individui sulla base della classe o etnia.

In definitiva, è importante rendersi conto che i migranti sono persone ordinarie in circostanze straordinarie, con il proprio bagaglio culturale o di altro tipo, e dobbiamo quindi essere cauti nel valorizzarli. Lavorare da pari a pari significa non parlare verso il basso alla gente, ma significa anche rifiutare i comportamenti irrispettosi. Se il rispetto non è ricambiato e lo portiamo avanti a prescindere, allora non siamo fedeli alle nostre convinzioni.

Ma dobbiamo anche essere cauti nel giudicare il comportamento secondo le nostre norme culturali. Per esempio, mentre il pregiudizio è normalmente diffuso anche tra i migranti, i sospetti, le antiche ostilità e le tensioni etniche non si sviluppano nel vuoto. Capita che gli unici incontri tra afgani e kurdi siano esperienze negative. Dallo sfruttamento mafioso alle rapine sulle strade di Iran e Turchia al sequestro di bambini afgani in transito per estorcere denaro ai loro genitori: queste esperienze non sono rare tra i migranti irregolari. Mentre è bene sfidare i pregiudizi, tutte le ostilità inter-etniche dovrebbero essere lette in questo contesto.

Differenze culturali

I confini possono essere melting pot pieni di opportunità di scambio interculturale. Questo rimane uno degli aspetti più belli e vitali del lavoro con i migranti.

Il rovescio della medaglia è che, mentre noi non ci aspettiamo di conformarci alle convenzioni culturali dei migranti quando viviamo nelle comunità, sarebbe ingenuo pensare che le persone non abbiano interiorizzato alcuno dei valori prevalenti nei loro paesi di origine.

Ciò significa che le attiviste di sesso femminile, in particolare, devono considerare le convenzioni presenti in questi paesi, ed evitare di indossare abiti succinti o abbracciare amici migranti pubblicamente, poiché sono segni che possono confondere. Per quanto ci piacerebbe vedere la fine simultanea dei controlli sull’immigrazione e del patriarcato, dobbiamo accettare questi compromessi se vogliamo seriamente impegnarci con i migranti in una lotta per la libertà di movimento.

Questo suggerimento è stato criticato da alcuni e indicato come sessista. Siamo d’accordo che si tratta di sessismo, ma questo è solo un riflesso di atteggiamenti prevalenti nella società, da cui i migranti non sono affatto magicamente immuni. Che alcune persone, a prescindere dal luogo da cui vengono, percepiscano un abbraccio come un approccio, è una realtà di vita che noi dobbiamo aggirare se vogliamo affrontare quello che è già un incredibilmente complesso e profondo problema, che non ha bisogno confusione aggiunta esclusivamente per fare appello alla sensibilità radicali degli attivisti.

Questo argomento solleva un’altra questione spinosa, che è quello della responsabilità verso gli altri membri delle nostre comunità. Coloro che scelgono di essere affettuosi e fisici con i migranti (amici e non) di fronte agli altri, devono prendere in considerazione le implicazioni su altri membri del gruppo. Ricordate di essere osservati da persone con una limitata conoscenza dell’Inglese e che si baseranno quasi esclusivamente sul vostro comportamento nel giudizio su di voi. Questo potrebbe influenzare la percezione del gruppo e mettere in ombra le ragioni della nostra presenza essere lì.

Questo non significa che dovremmo semplicemente accettare i comportamenti impropri. Anche se raramente, a Calais ci siamo occupati di un numero di casi di comportamenti o commenti sessuali inappropriati discutendone gli con gli autori in presenza di altri membri della loro comunità, spiegando chiaramente che cosa stiamo facendo a Calais e perché abbiamo sentito che il loro comportamento era irrispettoso. Altri migranti ci hanno sostenuto in questo.

E’ anche con l’esempio che si realizza il rispetto. Come detto, in circostanze difficili o disperate le persone possono essere più aperte a nuove idee, e molti dei No Borders impegnati a Calais sono donne. Anche una superficiale ricerca sui costumi dei paesi di origine può aiutare a capire il motivo per cui non dovremmo prevedere le stesse reazioni che ci aspetteremmo dagli europei. L’Afghanistan, per esempio, ha un sistema di rigorosa segregazione di genere, con le donne e gli uomini che non interagiscono al di fuori della famiglia.

Si può essere tentati di passare più tempo con le comunità con cui sentiamo maggiori elementi in comune, o maggiore vicinanza culturale. Poter condividere alcune birre con i migranti eritrei ed etiopi – a maggioranza cristiani – significa legare con loro più rapidamente che con alcuni dei migranti musulmani, a meno di non fare uno sforzo consapevole per avvicinarci ad altre comunità, nonostante sia richiesta una mole di lavoro maggiore.

E’ naturale essere inclini a trascorrere il tempo con coloro con i quali condividiamo degli interessi, ma dobbiamo stare attenti a non cadere nella trappola del favoritismo. Alcune comunità possono essere colpite più duramente di altri, o affrontare più difficili condizioni di vita; ed è questo che in definitiva dovrebbe orientare il flusso dei nostri sforzi. Dobbiamo lavorare per favorire legami tra le diverse comunità, se siamo determinati a superare i confini, anche se le consuetudini possono rendere ciò molto complicato.

Un’altra cosa importante è non dare inconsciamente la preferenza a quelli con più capacità di comunicare con noi.

Abbiamo registrato un numero di incidenti in cui l’interprete ha agito come portavoce. In tutte le occasioni tra i migranti si è diffusa la frustrazione, hanno criticato il loro traduttore o scelto qualcun altro, ma sono stati gravemente ostacolati nella loro capacità di comunicare a causa del loro numero e dei limiti di tempo.

Analogamente, lavorare con intermediari dovrebbe essere una scelta considerata con molta attenzione, tanto più che molti migranti non sono in realtà parte di una particolare comunità ma in possesso di qualche qualità che permette loro di diventare una sorta di portavoce.

L’importanza dell’onore e della vergogna in molte società mediorientali è spesso trascurata dagli operatori, che sono troppo distaccati da quelli con cui lavorano. Vale la pena ricordare che alcuni preferiscono rimanere senza cibo se trattati con mancanza di rispetto, come è stato illustrato durante il maleducato e condiscendente trattamento di migranti sudanesi da parte di un ente di beneficenza a Calais che ha portato a una breve boicottaggio del loro programma di distribuzione del cibo.

La cultura dell’onore è anche un altro motivo per cui un approccio basato sulla solidarietà può generare relazioni più forti e durature di uno fondato sulla carità. Vale la pena considerare che la nostra cultura agisce come una barriera potenziale al lavoro con i migranti. Per quanto abbia attrattiva e risonanza politica, la cultura DIY può essere estremamente esclusiva.

Siamo a conoscenza di un evento di solidarietà, progettato per attrarre circa duecento richiedenti asilo afghani, con birra e assordante musica punk. Non sorprende che solo un gruppetto fosse presente. Le donne in topless al campo No Borders di Calais sono un altro esempio, ed probabilmente anche un altro segno dell’imperialismo culturale.

Mafia

La mafia è generalmente ostile agli attivisti, in quanto ha bisogno di mantenere migranti in uno stato di dipendenza per ottenere profitto.

A Calais, dove abbiamo cercato di incoraggiare l’autonomia dei migranti, la mafia ci ha subito visto come una minaccia. Sfruttavano sfiducia e paure della gente così come i nostri ostacoli linguistici nel tentativo di danneggiare le relazioni. Ciò comprendeva la diffusione di voci secondo cui noi lavoravamo per la polizia, e che tutte le attiviste erano prostitute.

E’ facile bollare tutti i trafficanti come sfruttatori, e molti in effetti lo sono. Anche se questa è l’immagine prevalente spacciata dalla stampa aziendale, la situazione è molto più complessa, e dobbiamo accettare che ci siano un sacco di informazioni di cui non veniamo a conoscenza attraverso i media ufficiali.

In primo luogo, la linea di distinzione tra migranti e mafia è confusa e irregolare. La mafia gestisce un’economia sommersa ai cui le persone ricorrono quando rimangono alla frontiera troppo a lungo e a corto di soldi, dal momento che altre possibilità di guadagno vengono loro precluse. Rete di migranti e mafia significa che non c’è un gruppo di individui temuti e violenti, ma un assortimento di persone ordinarie e disperate con vari gradi di coinvolgimento.

In secondo luogo, i trafficanti hanno avuto un grande successo nel distorcere i confini politici e nel minare i controlli sull’immigrazione. Hanno esperienza e sono altamente organizzati in reti fluide, costantemente in evoluzione e sopravvissute ai tentativi dello Stato di respingere gli individui.

Con questo non vogliamo idealizzarli, ma cercare comprensione più approfondita di ciò che sono i contrabbandieri, e il loro ruolo fondamentale dell’immigrazione irregolare. Una volta che arrivano a conoscervi, probabilmente non vi vedranno più tanto come una minaccia. Perseveranza e attenzione a non assumere comportamenti che potrebbero far sospettare un vostro coinvolgimento con la stampa o con la polizia, faranno scomparire la maggior parte dei problemi con il tempo.

TERRITORI DA ABITARE, MONDI DA COSTRUIRE

Introduzione

La rivoluzione non è una sommatoria di atti, né una valutazione morale su ciò che è giusto o sbagliato, e ancora meno un momento in cui esplodono all’improvviso tutte le contraddizioni. La rivoluzione è un processo in cui si misura l’ampiezza o i limiti della nostra strategia. “Noi” rivoluzionari di oggi partiamo da una situazione di separazione e isolamento totale, in cui la fiducia tra le persone è quasi inesistente e qualsiasi cosa è più desiderabile della lotta e della rivoluzione stessa.

Per anni abbiamo teorizzato il fatto che i quartieri non esistevano. Per quartieri intendiamo posti pieni di relazioni, di partecipazione da parte della gente nelle questioni che riguardano il territorio, dinamiche storiche di cooperazione e mutuo soccorso che li differenziavano dal resto della città. Nulla di tutto questo esiste da tempo e la sconfitta degli anni 70 è stato l’inizio di decenni di abbandono e di imborghesimento dei quartieri popolari. Questo però non vuol dire che non esistano delle possibilità di vita diverse da sperimentare in un determinato territorio.
Partiamo da ciò che non c’è e potrebbe esserci. Nulla è di per sé rivoluzionario e nemmeno noi lo siamo. E’ piuttosto nella ricerca, nella sperimentazione e nel mettersi in gioco che possiamo creare delle situazioni rivoluzionarie.

La rivoluzione non arriva, stiamo forse perdendo tempo?

Se in tutti questi anni le cose non hanno preso una svolta è perché abbiamo affrontato il problema da un punto di vista sbagliato. La rivoluzione non è un momento storico in cui la borghesia viene sostituita da un proletariato in armi dopo una battaglia decisiva. E’ rivoluzionario tutto ciò che riusciamo a costruire ogni giorno e che diventa potenza in grado di imporre una geografia affettiva e politica diversa da quella che viviamo oggi.

Nulla di questo può avvenire se non abbiamo una minima idea di ciò che intendiamo per vittoria e per rivoluzione, e se non sappiamo quale rapporto di forza vogliamo contrapporre ai nostri nemici o quale potenza materiale vogliamo sviluppare. Cosa ci serve per essere felici? Quanti siamo e quanto siamo disposti a metterci in gioco? Dalla risposta a queste domande dipende qualsiasi possibilità rivoluzionaria e sarà poi nella cura, nel costruire, nel fornirci di mezzi materiali e nello sperimentare il comunismo che riusciremo a costruire un vero movimento rivoluzionario in grado di saper autogestire un territorio e di guadagnarsi l’impunità. Ad essere chiamati in causa non saremo più “Noi compagni” ma un intero territorio, un’intera comunità.

Ciò che stiamo vivendo ora sono le conseguenze di decenni di interventi politici schizofrenici diffusi nelle città senza una strategia dietro, un terreno solido dove poter camminare, un linguaggio comune con le persone che si pretendeva di coinvolgere. Tutto questo ha aumentato la desolazione e allontanato la rivoluzione come desiderio e possibilità. Ora è necessario aprire una nuova sfida: come si può vivere in modo rivoluzionario e aumentare la nostra potenza? Bisogna tornare a stare nei territori e trovare un linguaggio e dei gesti comprensibili ai suoi abitanti. Il tempo dei centri sociali è finito.

Perché partire da un territorio?

Per troppo tempo abbiamo nascosto la nostra mancanza di strategia rivoluzionaria dietro all’elogio dei momenti di accelerazione, in cui effettivamente succedeva quello che teorizzavamo: incontri, amori, legami, spazi di discussione e non assemblee noiose, e soprattutto azione, tanta azione: dalla costruzione di ciò che serviva per affrontare la lotta agli scontri con la polizia.

Non ci siamo mai chiesti se dietro a questa improvvisa consapevolezza e voglia di mettersi in gioco di persone di ogni età in un territorio non ci fosse la scommessa di qualche gruppo di compagni. Compagni che per anni si erano dovuti seguire assemblee cittadine, manifestazioni di indignazione e tutto quello che solitamente odiamo del cittadino, compreso il suo modo pacato e “ingenuo” di vedere il nemico che lo circonda e che addirittura si alimenta della sua debolezza.

La Val di Susa non è nata dall’oggi al domani, dietro ci sono dei comitati e dei legami di fiducia che si sono creati, ci sono le botte prese che hanno fatto crescere la consapevolezza che la violenza è solo una questione strategica e non morale. Ci sono centinaia di assemblee tra persone che hanno imparato a prendersi cura del proprio mondo e della propria vita e anche di quella altrui dopo aver subito sulla propria pelle le ingiustizie dello stato e della polizia.

E’ necessario partire da un territorio perché non si può mettere in collegamento le comuni in giro per il mondo se non se ne ha una in cui sperimentare ciò che le altre ci hanno insegnato, e non possiamo spingere altri a crearne di nuove se non abbiamo da esportare un esempio, una prassi più che una teoria. La magia sta nel fatto che dopo mesi e anni di lavoro nei territori troviamo sempre più di quanto cercavamo.

Abitare come presupposto per ogni intervento politico

Ci sono esperienze che ci formano e ci fanno vedere il mondo da una prospettiva diversa. Un esempio di questo è stato il presidio No Borders di Ventimiglia: un confine, un posto di transito che all’improvviso diventa presidio, campeggio, punto di appoggio, un luogo di aggregazione dove si discute in varie lingue. Una base politica per affrontare il razzismo della frontiera Europa. Ragazzi di tutta Italia che prima non avevano mai militato direttamente in nessuno dei collettivi storici italiani, all’improvviso iniziano a parlare di legami, incontri, affetti, invece che di assistenzialismo, pool legale, diritti costituzionali,ecc.

La forza di Ventimiglia sta nel fatto che come in Piazza Tahir, al campeggio di Chiomonte, Piazza Taksim, Piazza del Sol intorno a una lotta contro un’ingiustizia si scopre la vita, la felicità di lottare insieme, di costruire con le proprie mani qui ed ora un’alternativa alla miseria che ci vogliono imporre. Si scopre che forse non vale la pena andare fino in Germania a trovare un futuro migliore, perché il futuro è già qui, nella solidarietà e nell’amicizia, nella gioia del amico che ce l’ha fatta grazie al nostro aiuto e nella rabbia per i ragazzi chiusi in un container dalla gendarmeria francese.

Abitare un confine, trasformare l’indignazione e la rabbia in potenza collettiva, mettere a disposizione mezzi e saperi. Quando parliamo di abitare non ci riferiamo solo alla lotta per la casa o all’occupazione, ma al fatto di creare nuove geografie, stravolgere i territori che sembrano inabitabili e renderli luoghi dove è piacevole stare, da dove non vorremo mai andarcene. Tutto questo finisce quando diventa solo un momento di passaggio e non qualcosa che deve resistere e svilupparsi, perché i rivoluzionari non possono permettersi di mancare un’occasione come quella di Ventimiglia. Quando si dice “portare Ventimiglia ovunque”, per “Noi” rivoluzionari vuol dire esportare quella esperienza e adattarla alle particolarità del proprio territorio, contribuire a creare una rete nazionale e Europea in grado di rompere le barriere del razzismo e della governance capitalista.

L’esperienza dell’Ex Cuem alla Statale di Milano ha da insegnarci il fatto che anche in un ambiente difficile e atomizzato come quello universitario ci sono delle possibilità. Ai tempi tanti compagni lavoravano su un piano totalmente diverso, e il fatto di aver avuto la possibilità di incontrare gente nuova ha permesso di vedere quel luogo con un’altra prospettiva come era successo in Val di Susa. Incontrarsi e discutere con compagni di altre realtà politiche con cui si condivideva la stessa lotta è stata una novità che ha stravolto per un periodo gli equilibri meschini del movimento milanese.
L’alchimia derivava dal fatto che insieme si condivideva un’esperienza e una lotta che riempiva di gioia, e questo ha fatto in modo che tutti si mettessero in gioco. Quando si sono messi di mezzo gli equilibri delle parrocchie, automaticamente è finito l’entusiasmo e i calcoli hanno preso il posto della lotta.

Percezione comune delle possibilità e dei limiti

Il mondo che ci circonda è il mondo dove agiamo, dove ci muoviamo. Capire come funziona e cosa si muove al suo interno è importante per disegnare una strategia da applicare nel territorio dove agiamo. Partire da un’idea e riempirla di prospettive, dei sogni di ognuno, dell’energia di tutti; analizzare ogni passaggio, ogni vittoria e ogni sconfitta porta allo svilupparsi di un piano di consistenza comune, che fa di ognuno di noi una potenza e non un gregario o un semplice spettatore. Pensando al Giambellino, possiamo vedere come non sia stato un percorso monolitico, ci siano stati vari passaggi e ognuno di questi ha visto crescere tanti compagni che si sono dovuti confrontare con la realtà del quotidiano e della lotta che si porta avanti. Qui la teoria si è dovuta adattare a un linguaggio comprensibile da chi abita il territorio, a un tatto sviluppato nell’agire a seconda del contesto in cui ci si è trovati e che solo chi lo conosce e lo vive può comprendere.

Se non si ha una percezione comune non è perché ci sono punti di vista diversi, ma perché a volte qualcuno è immerso nella lotta e qualcun altro è ancorato a se stesso e ai propri principi. La contrapposizione ha senso se si oppongono dei percorsi e dei modi di intervento, non dei dogmi morali o ideologici. L’esperienza ci insegna che quando ci siamo, quando ci crediamo, la consapevolezza di contribuire alla costruzione di una potenza rende il nostro intervento parte della vita stessa che sogniamo e che stiamo realizzando e non militanza fine a se stessa.

Combattere un nemico organizzato per impedire la rivoluzione

Qualcuno anni fa diceva che eravamo il 99%, peccato che quell’1% sia organizzato al punto tale da rendere inutile ogni nostro intervento. Forse sarebbe il caso di prenderne atto e partire da questa semplice consapevolezza: davanti a noi c’è un nemico organizzato per impedire la rivoluzione e per mantenere la propria egemonia culturale e politica.

Uno degli errori più grossi che possiamo commettere oggi è non essere organizzati, tagliarci le ali da soli o avere paura di divenire potenza. Spesso si rischia di avere una visione minimalista delle cose, come se tutto girasse intorno a noi e ai nostri quattro amici e come se il problema dell’organizzazione riguardasse il semplice desiderio di diventare struttura. La verità è che ogni cosa che facciamo nella vita ha bisogno di organizzazione: dalla scuola, all’università, al lavoro. Dobbiamo organizzare il nostro tempo, calibrare i nostri impegni, scegliere quando possiamo fare una cosa e quando no. Il fatto che la rivoluzione abbia bisogno di compagni organizzati è un’ evidenza che non può più essere ignorata, perché senza questa consapevolezza la potenza rimane ferma e col tempo si esaurisce.

Proviamo ad immaginare un quartiere in cui è attiva una palestra, un ambulatorio popolare, una scuola comunitaria e una scuola di calcio. Dove abbiamo un laboratorio di falegnameria, una trattoria autogestita e un forno dove fare il pane o la pizza. Allo stesso tempo una libreria, uno sportello del lavoro e un altro sulla casa. Un’assemblea sulle questioni di genere, un mercatino dell’usato, ecc ecc. Come possiamo immaginare di poter fare queste cose se non siamo organizzati sia per far funzionare la potenza collettiva, sia per coinvolgere le persone che conosciamo in queste attività? Anche nelle conoscenze che facciamo ci vuole la parte qualitativa e il suo raggiungimento è in subordine a questa organizzazione.

Abbiamo bisogno di prenderci cura di ogni passaggio, di ogni gesto, di ogni azione che facciamo, avere cura della potenza che vogliamo costruire, perché senza questa cura e attenzione non potremmo mai raggiungere i nostri obiettivi. La disciplina che ci deve caratterizzare in ciò che facciamo deve essere verso quello in cui crediamo e che stiamo costruendo. E’ chiaro però che se non ci crediamo non avremo ne la disciplina, ne la cura, ne il tatto, necessari per portare avanti il nostro agire e finiremmo per rinchiuderci nell’auto-celebrazione di una presunta spontaneità il cui unico metro di misura è il nostro personale sentire, sancendo così la nostra sconfitta.

Perché intervenire e non lasciare che ogni cosa si sviluppi da sola?

Lo spazio non è neutro, in esso ci sono dei legami, delle abitudini, delle storie, delle paure. Arrivare in un quartiere non vuol dire “colonizzare” un territorio, ma imparare ad abitare in modo diverso ogni spazio, capire le dinamiche che ci sono al suo interno, prendere parte in mezzo a tutte le sue contraddizioni.

In Giambellino ad esempio la maggior parte dei suo abitanti sono anziani, persone che si sentono tradite e abbandonate da tutti: dalle proprie famiglie e dalle istituzioni, hanno paura di tutto e di tutti. Esistono delle comunità migranti che nei cortili dove vivono hanno saputo tessere dei legami e farsi riconoscere. Questi convivono con una piccola “malavita” che si arrangia e tira avanti senza però terrorizzare il territorio e i suoi abitanti. In Giambellino noi siamo gli antirazzisti, ma anche “quelli dei centri sociali”, quelli che aiutano la gente, ma anche quelli che occupano le case fregandosene di chi è in lista, quelli che aiutano i bambini e gli anziani, ma anche quelli che portano degrado. Dentro questa schizofrenia però ci stiamo e prendiamo parte e dentro queste contraddizioni l’immaginario cresce sempre di più.

La comunità sudamericana arrivata grazie alle occupazioni del comitato e prima pressoche inesistente, ora piano piano sta trovando i propri spazi in quartiere, tessendo i propri legami e adattando la propria cultura rispetto alle altre con cui si trova a vivere nel quotidiano. Gli occupanti in generale attraverso il vivere il quartiere sono l’avanguardia di un modello di vita fatto di solidarietà e amicizia. Se fanno un lavoro nel proprio cortile è un aiuto per tutti che porta crescita e questo fa in modo di mettere in discussione la figura degli “attivisti dei centri sociali”. Tutto questo avviene perchè decidiamo di intervenire.

In Giambellino ci sono le stesse persone di prima, con tante famiglie nuove che hanno portato una nuova prospettiva al quartiere, ci sono le stesse contraddizioni ma anche delle nuove possibilità che prima non c’erano, il racket è diminuito grazie alla solidarietà come presupposto per le occupazioni. Abbiamo trovato i nostri spazi e ogni giorno è una lotta per avere dei nuovi amici, per aumentare la potenza del comitato e per eliminare la paura e la diffidenza.

Intervenire non vuol dire ignorare tutto ciò che di diverso si muove nel territorio, ma imparare a convivere con tutto ciò che c’è in esso, capendo le giuste distanze e i giusti avvicinamenti secondo il momento e il contesto. Se in Giambellino possiamo parlare di intervento rivoluzionario non è per gli enunciati che nel tempo si sono dovuti confrontare con la realtà del territorio, ma perché ciò che stiamo costruendo ha di rivoluzionario la messa in gioco di tante persone diverse tra di loro che si trovano nel quotidiano per discutere di come rendere la propria vita migliore. Questo piano non esisteva per loro, come per nessuno dei compagni lì presenti, prima di novembre dell’anno scorso.

Cosa intendiamo per potenza collettiva

La qualità e il senso della vita che vogliamo dipende da quanto siamo in grado di costruire con le nostre mani il mondo che desideriamo e da come riusciamo a collettivizzare i saperi individuali. La potenza è tutto ciò che ci facilita la vita e ci rende autonomi rispetto al capitale. Perché è questo il senso che dobbiamo dare alla lotta, costruire qui e ora il nostro mondo, prenderci quello che ci serve, organizzarci per fare aumentare questa potenza.
Una lotta e un progetto politico hanno bisogno di mezzi materiali: avere un laboratorio di falegnameria o un forno a parte darci la gioia di lavorare insieme in un progetto comune ci può permettere di avere un contatto reale con questo mondo in cui il capitalismo ha una risposta per tutto. Abbiamo disimparato a fare un sacco di cose o forse non abbiamo mai imparato a farle.

Il piano di consistenza serve per indirizzare le idee e i progetti in un’ottica di crescita comune. Abbiamo bisogno di una padronanza collettiva e non individuale delle tecniche e dei saperi per fare crescere la nostra potenza. E’ costruendo questa potenza nel quotidiano, fornendosi di mezzi materiali, che si riuscirà a destituire questo mondo marcio, almeno dove siamo, dove agiamo. Il resto significa collegare le comuni, collegare le potenze materiali in giro per l’Italia, per l’Europa e per il mondo.

Sulla divisione tra compagni e popolazione, tra “noi” e la “gente”

Partiamo da un presupposto chiave: la nostra lotta è una lotta di massa, non una lotta fatta da chi pensa di aver già capito tutto e vede gli altri come dei semplici burattini dimenticandosi chi era prima di aver conosciuto i compagni e aver iniziato ad avvicinarsi alla lotta. Queste persone condividono una frustrazione di fondo e riproducono all’infinito dei club dove si può entrare solo con la tessera “compagni affini”. Una lotta di massa non si basa unicamente sulla questione numerica, ma soprattutto sulla scommessa di riuscire ad avere un rapporto quantitativo e qualitativo allo stesso tempo, un coinvolgimento reale delle persone nelle lotte e nei percorsi che si portano avanti. Ed è questa la cosa più difficile che richiede più attenzione e tatto per rendere desiderabile la rivoluzione alle persone che ci circondano, trovare un linguaggio comune con chi abita un territorio, cercare modalità per guadagnare la fiducia della gente.

La questione delle masse è stato sempre il punto di scontro con tanti compagni che nascondono la propria incapacità di agire nell’esistente dietro la critica sterile delle masse. Chi ambisce alla costruzione di una potenza collettiva, al vedere avanzare e allargarsi il proprio terreno, non può non porsi il problema di riuscire ad attivare percorsi di partecipazione, di passare dal bisogno all’autonomia.

La divisione tra compagni e il resto degli abitanti di un territorio è qualcosa che giova solo ai nostri nemici, facilitando il lavoro di isolamento che portano avanti nei confronti di ogni lotta o collettivo politico. Da soli ci emarginiamo e ci mettiamo all’angolo illusi di aver capito tutto e che gli altri siano invece parte del problema. Pensare questo vuol dire negare l’essenza del capitalismo, non partire dalla consapevolezza che tutto si basi sulla separazione e la mancanza di relazioni. “Noi” compagni dobbiamo fare il contrario, essere parte della popolazione, della gente, del territorio, agire nelle contraddizioni imparando a leggere gesti, abitudini e paure, cercando di trovare in tutto questo delle possibilità. Fare degli incontri il nostro asso nella manica, lasciarci contaminare, rendere visibile quello che vogliamo fare e perché lo facciamo.

Molto spesso ci si trova invischiati in un falso problema quando si ragiona su chi debba dettare i tempi di una situazione, se i compagni o gli altri presunti “soggetti” in campo, siano essi occupanti, migranti o studenti. Da un lato c’è l’arroganza dei militanti che si percepiscono come un’avanguardia perfettamente in grado di dirigere un processo politico, dall’altro una volontà di farsi da parte che in realtà nella frase “devono decidere loro” tradisce un paternalismo di fondo e mantiene una separazione invece di costruire un piano di consistenza comune. Questo fa in modo di provare a rovesciare il tavolo, di far ritrovare isolati gli sbirri, lo stato e qualunque forma di organizzazione che preveda lo sfruttamento e la speculazione sulla povertà e sulla miseria. Facendo così possiamo invertire la tendenza attuale e i nostri nemici dovranno cambiare strategia o meglio dovranno per forza di cose mostrare il proprio volto. Non potranno più chiamarci terroristi o dipingere un quadro fatto di pochi cospiratori pericolosi, al massimo ad essere sotto accusa sarà un intero territorio, un’intera comunità, una forma di vita e qui le cose cambiano.

Sportelli, bisogni e forme di vita

Spesso si dice che le persone incontrate tramite gli sportelli, che sia per uno sfratto, un’occupazione o per la questione delle bollette, le incontriamo solo sul bisogno e non sulla base di una comune tensione rivoluzionaria. E’ certamente vero, ma questo dovrebbe stimolarci ad una riflessione. La forma di vita dei compagni molto spesso si basa su un comune rifiuto del mondo, sul quale ci si trova e rispetto al quale ci si organizza, ma che troppo spesso prende il sopravvento a scapito della reale costruzione di un’esistenza rivoluzionaria nella sua materialità. Il punto in comune diventa negare questo mondo piuttosto che costruirne un altro. In questo contesto passa in secondo piano il fatto che realmente si sia in grado di vivere un presente diverso grazie al dispiegarsi di una potenza che è tanto affettiva quanto materiale. Quando a vivere insieme sono solo compagni possono non preoccuparsi che ciò di cui si parla sia effettivamente realizzabile, effettivamente vivo, perché basta la consapevolezza di un sentire comune che però troppo spesso rimane un’enunciazione vuota.

In uno sportello contro la crisi non bisogna vedere solo un escamotage per attivare nuovi incontri ma la volontà di costruire una forma di vita che sia realmente più desiderabile di quella che offre la metropoli. E questo non significa abbassare le proprie pretese, rinunciare o scendere a compromessi per venire incontro ad un soggetto che supponiamo più “debole” (come quando chi vuole giustificare la propria immobilità gioca il jolly delle “famiglie” da tutelare), ma piuttosto rilanciare la posta in palio della scommessa rivoluzionaria, affermando che può essere assunta da chiunque e che non si tratta di una strada fatta di sacrifici, rinuncie e frustrazioni di qualcuno che si rinchiude nel rifiuto di un mondo che sarà sempre più forte di lui.

Costruire un territorio resistente vuol dire realizzare un tessuto in cui si possano crescere bambini, curarsi, studiare e vivere veramente meglio di come vivremmo normalmente. E per fare questo si parte dai bisogni, dalla capacità di costruire un rapporto di forza collettivo che migliori fin da subito la vita in tutti i suoi aspetti. Organizzandosi rispetto ai bisogni, anche a quelli più immediati e magari di natura solo economica, si dissipa la coltre disordinata di parole con cui troppo spesso si ammanta una vita che di rivoluzionario ha poco e si comincia nell’immediato a mostrare la potenza che si può esprimere lottando insieme.

Questione strategica e non militare

Succede spesso che in mancanza di prospettive rivoluzionarie o di voglia di sporcarsi le mani e confrontare la propria ideologia e pensiero col reale si faccia appello a dei miti. Questi possono essere di due tipi. Il primo riguarda i governi socialisti sudamericani o le esperienze “comuniste “ come l’Urss o l’ex Jugoslavia, ed è la via di tanti orfani della sinistra che trovano ispirazione in queste esperienze senza mettere in discussione le contraddizioni e le dinamiche repressive che in questi regimi si sviluppano o si sono sviluppate, spacciando per rivoluzionario un capitalismo di stato che non ha mai eliminato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e che nella maggior parte dei casi nasconde e ha nascosto la propria vigliaccheria dietro alla criminalizzazione dei movimenti.

L’altro mito riguarda l’esperienza delle avanguardie armate di vari paesi o territori. Nell’intento di esaltare l’azione a tutti i costi si fanno esempi di alcune esperienze di lotta armata che vengono motivate solamente dal fatto che combattevano l’imperialismo, il capitalismo o gli americani. La questione è che ogni territorio ha le proprie caratteristiche e ogni gruppo armato ha avuto sempre un contatto col territorio in cui si trovava ad agire ed era sempre chi viveva il territorio ad appoggiare la lotta armata, dopo che ogni “prospettiva democratica” si era esaurita. Così questi gruppi diventavano avanguardie di un sentire generale, di una popolazione in armi. La scelta della lotta armata è sempre stata una scelta strategica e non una questione di muscoli, ma soprattutto la necessità delle popolazioni di arrivare ad affrontare una guerra civile o una guerra contro lo stato è sempre derivata dalla difesa di un sentire comune di migliaia o addirittura di milioni di persone.

Basta pensare a Cuba dove senza l’appoggio dei contadini e la costruzione di scuole, fabbriche autogestite e di ogni mezzo di sussistenza per affrontare la guerra, la vittoria non sarebbe mai stata possibile. Le rivendicazioni riguardavano il sentire generale della popolazione e non un’ideologia minoritaria che si faceva avanguardia di se stessa. Lo stesso vale per gli Zapatisti e per tanti movimenti indigeni del sud America dove le comunità in lotta decidono di armarsi per difendere la propria autonomia. Il Rojava è un altro esempio di lotta territoriale che si arma per difendersi sia dall’imperialismo americano e turco, sia dal nazismo dell’Isis. Ciò che è in gioco è la vita di un progetto politico, la libertà delle persone e l’autonomia di un’intera popolazione. Anche le Brigate Rosse erano forti e popolari finché avevano radici nelle fabbriche e l’appoggio degli operai.

Chi contrappone all’organizzazione quotidiana dal basso il mito di queste avanguardie, o dimostra un’ignoranza di base, o mente a se stesso, perché anche se si parla di contesti e di situazioni radicalmente diversi a livello storico e materiale, non esiste ne è mai esistito gruppo o progetto politico che abbia apportatato dei cambiamenti radicali senza l’appoggio della popolazione. Per questo la questione è sempre politica e strategica e mai direttamente militare. Non si può combattere una guerra, senza pensare di poterla vincere e per vincerla è necessario credere che non saremmo soli a combatterla.

Il potere è logistico o sta nei palazzi?

Che il potere sia logistico e non stia nei palazzi, così come che un paese possa stare senza governo per mesi senza mutare la propria tabella di marcia è chiaro a tutti. E’ chiaro che il potere sia ovunque, dalle relazioni alle infrastrutture, nelle nostre paure e nei nostri sogni. I palazzi sono solo luoghi di rappresentanza, mentre tutto il resto passa attraverso una rete infinita di gesti, di produzione e di governo.

La questione è che non stiamo giocando la battaglia finale, siamo anzi in una fase in cui il livello generale è basso. Che il potere non stia nei palazzi non è una consapevolezza di tutti, ma più che altro bisognerebbe rivedere la nostra strategia da un altro punto di vista. Se è vero che il potere è ovunque e non racchiuso in luoghi simbolo , è anche vero che le contraddizioni di questo sistema sono da ricercare lì dentro, e approfondendole c’è la possibilità di fare crescere la soggettività e la consapevolezza che la lotta è l’unica via. Pensiamo alla questione delle case a Milano. Aler non assegna gli alloggi, i condomini cadono a pezzi e i comitati giustamente occupano le case. Questo lo sappiamo noi, ma per chi ha già una casa i problemi sono altri: le bollette, la morosità, l’isolamento, la mancanza di aiuti dallo stato. Tutte queste persone ci vedono come parte del problema perché scegliamo la scorciatoia, la via più facile, occupare e non pagare. Riuscire a far prendere le responsabilità a chi di dovere, rendere evidenti le operazioni che i nostri nemici portano avanti, portare davanti ai loro palazzi la rabbia della gente è un passaggio a cui non possiamo sottrarci, pena diventare parte del ceto politico che tanto critichiamo. Se le case cadono a pezzi , non è semplicemente dicendo alla gente che bisogna autogestirsi che riusciremo ad arrivare a questo, ci riusciremo piuttosto lottando con queste persone, rendendo evidente che se chi di dovere non ristruttura è perché non ha alcun interesse nel farlo. Dopo la consapevolezza, il passaggio all’autonomia e all’autorganizzazione diventa una possibilità concreta, perché nella lotta saremo riusciti a creare dei legami e a vincere le paure. Superare la tanto discussa questione dei “diritti” è possibile solo dal momento in cui le persone a cui vengono negati si renderanno conto che in un sistema capitalistico non esistono “diritti” perchè ogni cosa è legata al profitto e che quindi l’unico modo per ottenere qualcosa di cui si ha bisogno è la lotta.

Una questione importante riguarda il senso che diamo alle lotte e soprattutto quando si tratta di parlare di vertenze o di “chiedere” qualcosa alle istituzioni. Anche qui il problema è stato sempre posto male, non c’è una lotta di compagni, ma una lotta in cui c’è in gioco la volontà di un territorio, di una popolazione o di una categoria sociale di ottenere qualcosa. Per ottenere questo qualcosa ci sono tre scelte:

A) La lotta dura e pura senza mediazioni, ideologica che non chiede nulla e che in questo testa a testa col nemico si dimentica che ci sono delle persone che hanno tanto da perdere e che non decidono dall’oggi al domani di occupare una casa, una fabbrica, o di andare a rubare al supermercato e molto meno hanno chiaro, al di là del semplice odio di classe, il ruolo dei padroni, degli sbirri o di qualsiasi figura prenda la controparte.

B) La lotta vertenziale tipicamente sindacale, che punta tutto sulla trattativa senza tenere conto ne del rapporto di forza, ne della crescita soggettiva. Pur di ottenere quello che vuole e dimostrare che la propria sigla sindacale, partito o collettivo contano qualcosa, è disposta persino a pacificare una situazione, congelando qualsiasi possibilità rivoluzionaria.

C) La lotta strategica, dove ci si pone il problema della crescita e ogni questione da affrontare è semplice tattica rivoluzionaria. La vertenza si fa se si ha il rapporto di forza e perché vincendo sappiamo che aumenta la consapevolezza e cresce la soggettività, perché in questo modo si rafforza il gruppo e il concetto che “solo la lotta paga” diventa reale. Ogni passaggio è valutato a seconda del contesto e della maturazione politica dei soggetti in causa e non a seconda di quello che per noi è più radicale o meno. Vincere una battaglia in cui si obbliga lo stato a mettere l’acqua a un’occupazione dopo averla tolta è più forte del fatto di attaccarsela da soli. Questo per due motivi, primo perché crea un precedente che serve a tutti quelli che lottano su questa questione e secondo perché dopo aver visto che la lotta paga, la consapevolezza della vittoria cresce e lo stato è costretto ad accettare che davanti a una lotta organizzata e forte non può competere e deve arrendersi. Per questo più che ripetere il ritornello per cui “non si chiede niente allo stato” bisognerebbe interrogarsi a fondo su quando il rapporto di forza è reale e quando si rischia di disperderlo. Se da un lato vediamo un piano locale dove molto spesso i movimenti organizzati riescono a portare delle vittorie, allo stesso tempo vediamo momenti dove quella stessa forza perde di peso e non sa come esprimersi, ad esempio nei casi delle richieste al governo rispetto all’articolo 5 del Piano Casa. Questo dovrebbe suggerirci che il piano politico puro, giocato solo nelle piazze antistanti ai palazzi del governo, è perdente perché trova difficoltà ad abitare realmente un luogo e una lotta. Un quartiere può piegare le volontà dell’amministrazione comunale facendo leva sulla forza espressa dai suoi abitanti. E’ molto difficile abitare un consiglio dei ministri o un decreto legge. La sfida è capire come infrangere questo meccanismo, come poter esprimere una potenza collettiva anche su un piano nazionale senza scadere nella contrattazione sindacale.

Il mondo che vogliamo lo costruiamo ogni giorno avendo cura della potenza materiale e dei rapporti, le battaglie politiche servono per aumentare la consapevolezza e strappare delle vittorie, per guadagnarsi l’impunità e il diritto ad esistere, non perché lo stato ce lo conceda, ma perché con la lotta e il rapporto di forza ce lo siamo guadagnati.
E’ il momento di tornare a chiedersi come fare per raggiungere i nostri obiettivi, mettere davanti la strategia agli impulsi. Se riusciamo a vedere la rivoluzione e la crescita della nostra potenza come un processo le cose ci sembreranno più chiare.

Propaganda e comunicazione nei territori

Partiamo da un handicap gigantesco, i mezzi di comunicazione di massa sono in mano ai nostri nemici e l’informazione che viene prodotta nella maggior parte dei casi è contro ogni ipotesi rivoluzionaria, contro la possibilità che la gente possa organizzarsi.

Parlare il linguaggio della gente non vuol dire tradire le proprie idee, anzi vuol dire coniugare le proprie idee nel territorio in cui si agisce, con l’obiettivo di sviluppare un sentire comune e non quello di portare i nostri contenuti puri, le tavole di noi sacerdoti della rivoluzione. La propaganda non è un affare da politicanti, è cercare di costruire un immaginario che manca. Questo va di pari passo con lo sviluppo della lotta. Ogni lotta porta con sé nuovi cori, nuove frasi, nuove immagini che accendono la gioia e la rabbia. Per sviluppare veramente un linguaggio condiviso non bisogna scendere a compromessi ma semplicemente capire quali sono i punti di partenza, le cose più facili su cui trovarsi e a cominciare dalle quali si possono intessere discorsi rivoluzionari. Ancora una volta qui è in questione la conoscenza dei luoghi e delle dinamiche: ha più senso parlare assieme a un abitante di come il nostro palazzo, quello in cui viviamo tutti assieme stia cadendo a pezzi da anni nell’indifferenza delle varie amministrazioni piuttosto che ripetere ossessivamente che “noi non paghiamo nulla” perché è giusto così. Se smettiamo di pensare a quali sono i contenuti “da compagni” e a quali possono essere invece i discorsi di un quartiere in lotta ci accorgiamo che è possibile sviluppare qualcosa di più, che ci supera e che va oltre noi facendo crescere una dimensione di lotta più ampia.

Condividere e mettere in comune dei saperi nel campo della comunicazione significa produrre un nuovo linguaggio fatto non solo d’immagini, di manifesti e di frasi, ma anche di gesti. Destabilizzare l’egemonia culturale e creare un nuovo immaginario ci permette di dare forza e consistenza al mondo che vogliamo costruire e che deve essere il mondo di tutti, in cui tutti si riconoscono perché ne va della nostra quotidianità, della nostra felicità e della nostra vita.

Disattivare la contro-insurrezione

In tutti questi anni abbiamo subito innumerevoli attacchi da parte della polizia e della magistratura che in difesa dello stato avviavano inchieste, elaboravano loschi teoremi giudiziari e colpivano tanti compagni generosi che si spendevano nelle lotte. Allo stesso modo hanno attaccato gli spazi che abbiamo sottratto all’abbandono e al degrado, i luoghi in cui abbiamo sperimentato un modo diverso di intendere le relazioni, gli affetti, la lotta e la vita. Spazi dove la solidarietà e l’autorganizzazione prendevano il posto della solitudine e dell’egoismo.

Ci hanno colpito per impedire la contaminazione, per evitare dei possibili che si aprivano, per evitare che prendessimo più forza, costringendoci sulla difensiva, facendoci combattere una guerra di logoramento. Questo perché ci obbligano a porci su un piano militare che in mancanza di una forza capace di mettere in discussione l’attacco subito, svelando il vero obiettivo dello stato e cioè impedire l’organizzazione al di fuori delle dinamiche del capitale, ci ha fatto retrocedere invece che avanzare, tornare spesso a rincominciare da capo.

La contro-insurrezione agisce non tanto per punire, ma piuttosto per prevenire, per imporre il proprio governo sui corpi e sulle menti. Si muove invisibilmente tra le aule delle scuole e i corridoi delle università, tra i cortili dei quartieri popolari e i reparti delle fabbriche. Ciò che ora non è possibile, è merito della contro-insurrezione. Questa agisce dividendo, ricattando, imponendo l’egemonia culturale dello stato attraverso l’uso massiccio dei mezzi di comunicazione e di una tecnica di polizia che fa di ogni cittadino un agente non retribuito del capitale. In questo modo ci hanno isolato dal contesto generale, dal resto del mondo, ci hanno reso delle caricature di noi stessi togliendoci il terreno su cui potevamo camminare.

Se in questi anni siamo stati i protagonisti e i destinatari di tante delle operazioni politiche della contro-insurrezione non è perché eravamo forti, ma perché la nostra strategia era debole e le nostre barricate non erano solide, ma sopratutto perché abbiamo permesso ai nostri nemici di prosciugarci il mare dove potevamo nuotare. Dobbiamo partire da qui, da ciò che non è stato e poteva essere, da ciò che c’è già per cercare di impedire che possa essere distrutto.

E’ arrivato il momento di non cadere più nella trappola, nell’auto isolamento in nome di qualche principio o ideologia che fa però fatica a radicarsi e a diventare desiderabile. Dobbiamo riprendere la rotta, mettendo al centro non solo i desideri, i sogni, ma anche una strategia in cui essi si possano realizzare. Sopratutto dobbiamo immergerci nel mare delle contraddizioni che ogni territorio o ambito di lotta ha, perché prima di qualsiasi battaglia politica, prima dello sviluppo di un piano di consistenza comune, ci sono le barriere della diffidenza, del linguaggio e del sentire che sono da abbattere.

Se riusciamo a fare parte di un territorio, se costruiamo delle relazioni e dei rapporti di fiducia, se diamo un senso agli spazi che viviamo e attraversiamo, se mettiamo in comune saperi e esperienze, affrontando insieme le problematiche e trovando delle risposte, riusciremo a sviluppare gli anticorpi alla contro-insurrezione. Non perché riusciremo ad evitarla, esiste una guerra civile e in questa prendiamo parte, ma perché non riuscendo ad ottenere il proprio obiettivo attraverso la repressione, la contro-insurrezione perde la propria essenza e quindi si disattiva.

L’ unico modo che abbiamo per distruggere la frustrazione e l’impotenza accumulata da anni di sconfitte e strategie contro-insurrezionali vincenti, è quella di cominciare qui e subito a costruire una potenza reale che si nutra delle relazioni e delle azioni che riusciamo a intessere ogni giorno, all’interno del territorio in cui scegliamo di muoverci perché la rivoluzione non sia più un sogno di pochi, ma diventi un’ esigenza collettiva.

Non un’isola felice ma una comunità in lotta

La forza di una comunità in lotta è data dal grado di coinvolgimento dei suoi membri, di chi vive quel territorio, sia questo un’ università, una fabbrica, una valle, un quartiere, una frontiera e dalla forza collettiva che permette di affrontare e superare insieme le paure, di crescere perché è in gioco il senso che diamo alla nostra vita e a quella degli altri. Connettersi, contaminarsi, mettere in relazioni esperienze diverse. Condividere a livello locale, nazionale, europeo e globale ciò che caratterizza la nostra lotta, quello che abbiamo imparato sul territorio, mettere a disposizione mezzi per far crescere altre comuni. L’egemonia, se di questa bisogna parlare, non riguarda un gruppo di potere, ma una potenza collettiva, un modo di abitare il mondo, un modello culturale dal basso.

Una comunità che si pone come obiettivo quello di costruire un modo diverso di vivere e di abitare un territorio, se si pone in un orizzonte di allargamento, non può che essere conflittuale, perché in rottura con il modello culturale egemone. La città si espande, si trasforma, il capitalismo si ristruttura e ogni cosa al suo interno viene trasformata se non è capace di dotarsi di mezzi materiali, di un’organizzazione pratica di difesa e attacco e di una produzione infinita di saperi e immaginario capace di delineare una geografia diversa in grado di rendere un territorio impenetrabile da qualunque strategia di recupero governativo. I nostri mezzi, la nostra produzione di saperi e immaginario e la nostra forza difensiva e offensiva devono agire in modo armonioso.

Pensare il conflitto come strada necessaria per far avanzare la rivoluzione, partendo dal rapporto di forza e dalla consapevolezza collettiva della battaglia che si combatte. Non esiste qualcosa di giusto o sbagliato in assoluto, ma un modo di agire che può nuocere al nemico, farlo retrocedere, coinvolgere il territorio. Chi non tiene conto del contesto, della maturazione politica e dei rapporti di forza è condannato a combattere una battaglia che è persa di partenza perché strategicamente debole e politicamente insostenibile.

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I tempi che stiamo vivendo sono tempi difficili, il capitale attacca a 360 gradi i movimenti e le conquiste vinte con il sudore e con il sangue di chi ha lottato nel passato. Gli scenari che ci troviamo davanti sono sconcertanti, basti pensare alla guerra tra poveri dilagante, al razzismo, alla risposta dei lavoratori e degli studenti agli attacchi del governo. Tutto questo ci racconta di anni di separazione e desolazione. I vuoti sono tanti e sicuramente non è dovere del governo o dei padroni rendere desiderabile la lotta e il cambiamento alla gente. E’ invece compito nostro e possiamo dirci con tutta tranquillità che anche in questo siamo ancora carenti poiché siamo i primi a non prenderci cura del mondo che vogliamo costruire e della strategia che ci permette di avanzare.
Le possibilità ci sono, bisogna coglierle, tornare a chiederci cosa intendiamo per vittoria. Cambiare rotta e riprendere a navigare. Non ci sono manuali, ne si può trapiantare un’esperienza su un altro territorio, questo perché ognuno di questi ha le proprie caratteristiche, i propri ritmi e le proprie dinamiche. Si può invece, ed è auspicabile farlo, prendere spunti e cogliere sfaccettature differenti da ogni esperienza di lotta, per quanto lontana essa possa sembrare.

Questo testo nasce da un’esperienza comune, vissuta sul territorio Milanese e non solo, dopo anni di lotte, vittorie e sconfitte, di gioie e delusioni, siamo tornati a mettere in discussione la nostra strategia e a reindirizzare il nostro agire. Continueremo a viaggiare e a imparare da tutto ciò che è in movimento e da chi si interroga su come crescere, su come avanzare. Questo è un contributo destinato a tutti: ai pessimisti e a chi ci crede ancora. Abitare e lottare in un territorio vuol dire vivere già un mondo nuovo.
Ci vediamo sulle barricate.

info: autonomiadiffusa@inventati.org