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Calais: Appello alla mobilitazione contro gli sgomberi imminenti

[di Calais Migrant Solidarity]

L’imminente distruzione della jungle e la dispersione di massa forzata di persone provenienti da Calais non sono fatti isolati. Essi fanno parte di una più ampia strategia del governo francese, che lavora in tandem con altri governi per segregare, attraverso la violenza, le persone con i documenti da quelle senza documenti, il bianco e l’altro, il ricco e il povero; per bloccare le persone nei campi, nei centri di deportazione, e nelle prigioni, per costringere le persone a tornare in paesi in cui rischiano ulteriore prigionia e morte.

Il governo prianifica di fingere di dare alle persone una scelta: salire su autobus diretto verso i centri di accoglienza temporanea (CAO – centri di accoglienza) o essere espulsi dalla Francia (con un decreto OQTF). Inoltre, ci sono state deportazioni (giustificate dal Trattato di Dublino) dai CAO e non ci sono garanzie che esse cesseranno di avvenire. Alcune persone che hanno le impronte digitali in altri paesi europei, come l’Italia, sono espulsi li. Da tutti i paesi europei, i migranti sono deportati più indietro in gran numero, anche nei paesi di provenienza.

Ora sono aumentati gli arresti, alle persone viene impedito l’accesso alle stazioni ferroviarie in base al colore della loro pelle. La polizia di Calais ha ordine di eseguire almeno 80 arresti al giorno e il maggior numero possibile di deportazioni. Questo fa parte dell’operazione di sgombero. Le persone vengono catturate in massa, e il centro di espulsione a Calais è in fase di espansione.

Alcune associazioni umanitarie che lavorano nella jungle stanno collaborando a stretto contatto con il governo: invocano sgomberi «umani» o «più sicuri». Non esistono sgomberi umani! Non ci sono sgomberi sicuri!

A chi porta beneficio questa soluzione? Non a chi rischia l’espulsione, non a quelli che vogliono andare nel Regno Unito, non ai francesi oppressi dalla macchina del capitalismo, per i quali il governo non ha la pretesa di fornire alloggi sia. Godono le agende dei politici, in attesa delle elezioni. Godono le multinazionali che fanno profitti miliardari da operazioni di sgombero di massa e progetti di militarizzazione dei territori, a Calais, e altrove.

Quando avvengono sgomberi le persone sono costrette in ulteriore precarietà ed esposte a un maggiore pericolo. Se accade come previsto, ci sarà la violenza dalla polizia, e coloro che tenteranno di rimanere nella zona dovranno trovare un altro posto per dormire. Coloro che cercano questo si troveranno ad affrontare un rischio di espulsione, che la polizia eseguirà con chiunque non entri in “Accoglienza”.

Con più recinti e filo spinato, le persone cercano modi più pericolosi per attraversare le frontiere. Ci sono stati 15 morti noti al confine qui a Calais, nel solo 2016.

Le politiche oppressive di confine non sono isolate a Calais. La lotta contro le frontiere e lo spettacolo della solidarietà per coloro che sono oppressi non sono isolati a Calais. Mentre la polizia si prepara ad aumentare ancora la repressione di migranti e solidali, le persone si preparano a lottare contro l’oppressione in vari luoghi. Ci sono stati appelli in tutta la Francia per mostrare solidarietà a coloro che devono affrontare lo sgombero a Calais e combattere le società che traggono profitto qui. Questo è l’appello da Calais per voi, per combattere il meccanismo di confine nei luoghi in cui vi trovate.

Questo non significa che non si debba venire a Calais. Se siete stati qui prima, siete piuttosto autonomi e avere un’idea chiara di ciò che si vorrebbe fare, ci saranno persone che potrebbero avere bisogno di supporto durante e dopo gli sgomberi.

Se non siete mai stati a Calais prima, avete bisogno di un sacco di informazioni sulla situazione, e non avete una buona idea di ciò che si vorrebbe fare per portare solidarietà attiva a sostegno delle persone che vengono sgomberate e di fronte alla violenza del confine, ora può essere un momento difficile per arrivare.

  • Invitiamo le persone a fornire soluzioni abitative dignitose e spazi accoglienti nelle loro città perché molte persone che vivono nella jungle lasceranno Calais!
  • Chiediamo azioni decentrate nelle città contro le società che traggono profitto dalla miseria umana!
  • Chiediamo la distruzione delle prigioni e dei centri di espulsione in tutta Europa!
  • Chiediamo la solidarietà nella lotta contro il confine!

15 ottobre 2016

CMS – Calais Migrant Solidarity

[Appello in francese: 
https://calaismigrantsolidarity.wordpress.com/2016/10/15/call-out-against-the-coming-evictions/]

RADICAL MIGRANT SOLIDARITY [ITA – 2/4]

Parte 2 – I CONFINI TRA NOI

Le aree di frontiera come Calais o Ventimiglia, sono caratterizzate da una grande concentrazione di migranti, di mafiosi e di trafficanti e da un’intensa attività di polizia. I loro marcatori geografici sono porti o frontiere di terra, campi occupati e centri di detenzione. Sono incroci chiave dei percorsi di migrazione e delle vie del contrabbando, e perciò sono già stati al centro di percorsi di lavoro solidale.

Quando CSM ha iniziato a lavorare a Calais, nell’estate del 2009, il numero di migranti in città aveva raggiunto il suo picco, e gli ostacoli al lavoro di cooperazione erano più impegnativi. Allora circa 2.000 persone vivevano in campi occupati al, con più di 800 afgani in uno solo di questi. Il numero di bambini e adolescenti era elevato: quasi la metà dei 279 arrestati durante lo sgombero del campo afgano, a settembre, erano minori non accompagnati.

Il governo britannico stava delegando la guerra contro i sans-papiers – che si è manifestata nella continua persecuzione dei migranti, che prosegue ancora oggi – affidandola ai reparti di PAF e CRS.

Lo Stato francese dichiarò la sua intenzione di rendere l’area ‘migrant-free‘ entro la fine del 2009, il progetto venne realizzato nella forma di ripetuti arresti e della distruzione di campi e case occupate. Fu in questo contesto che gli attivisti No Borders si sono presentati ai migranti, hanno spiegato il loro intenzioni, e hanno tentato di superare le diffidenze.

Supponendo di lavorare sulla base dei principi precedentemente descritti, e di avere una comprensione relativamente buona della situazione in cui siamo coinvolti, rimangono tuttavia un certo numero di altri potenziali ostacoli nel lavoro con i migranti privi di documenti.

Ne analizziamo quattro che abbiamo incontrato a Calais.

Fiducia

Poichè la sfiducia può essere un meccanismo chiave di sopravvivenza per i sans-papiers, è molto importante evitare di fare domande inutili. Si può essere tentati di farlo, soprattutto se siete nuovi a un posto e vi sentite nervosi o a disagio. Non solo è irrispettoso, ma rischia di farti apparire ai loro occhi come un poliziotto.

A Calais, conquistare la fiducia dei migranti è stato il problema più grande e più ricorrente all’inizio del nostro percorso, per una serie di ragioni.

Come accennato in precedenza, al tempo c’era un numero maggiore di migranti nella zona, e la maggior parte di loro erano giovani uomini afghani che parlavano poco inglese. Questi ostacoli linguistici hanno reso difficile la comunicazione e ci sono voluti diversi mesi per sviluppare relazioni individuali. In più c’era la nostra inesperienza, la popolazione in continuo cambiamento, e il fatto che

il campo Pashtun (afgano) campo era sotto il controllo della mafia, la quale diffondeva spesso false notizie e voci negative su di noi.

E’ importante comprendere il contesto in cui sorgono questi tipi di problemi per raggiungere un rapporto di fiducia e godere di buona reputazione tra i migranti. Dobbiamo sempre supporre c’è accadono molte più cose di quante riusciamo a controllarne, e accettare che non abbiamo bisogno di sapere tutto. Consigliare alle persone di non rivelare più informazioni del necessario può essere anche un modo rapido per costruire fiducia.

Oltre alla curiosità eccessiva, un altra cosa che aumenta la sfiducia nei vostri confronti è l’utilizzo di apparecchi per foto e video in presenza di migranti, che potrebbero scambiarvi per giornalisti. A Calais usiamo le telecamere solo per monitorare la polizia, e questo è chiaramente spiegato ai migranti. Fotografare i migranti irregolari, soprattutto quando vivono per le strade, è un’altro degli atteggiamenti che aggravano una situazione già di per sè debilitante. Molti simpatizzanti sembrano non capirlo e gli attivisti non dovrebbero esitare a spiegare perché è inadeguato fotografare o filmare persone.

Allo stesso modo, non lavoriamo pubblicamente con i giornalisti a Calais, neanche con quelli amici, perché consideriamo troppo elevato il rischio per le nostre relazioni. Giornalisti, ricercatori e fotografi spesso cercano di usare noi come intermediari, ci chiedono di presentare loro i migranti, e dobbiamo spesso lottare con loro per chiarire quando i migranti non vogliono essere intervistati, fotografati, o filmati.

Nel particolare contesto del lavoro con i rifugiati, abbiamo scoperto che l’associazione con fotografi tende a non essere compatibile con il nostro attivismo. A meno che i migranti non abbiano espressamente chiesto l’attenzione dei media, le nostre ragioni per essere lì devono rimanere inequivocabilmente chiare alla popolazione in continua evoluzione.

Privilegio

Abbiamo bisogno non solo di riconoscere il nostro privilegio e sfruttarlo, ma di farlo in un modo che sfida le gerarchie esistenti. A volte, sarà dolorosamente evidente a tutti che vi è un enorme divario tra noi, anche se stiamo cercando di creare le condizioni per demolire le gerarchie.

E ‘difficile non sentirsi in colpa ad essere i soli, nel campo, a non dover fuggire dalla polizia, i soli a potersi ritirare in un posto sicuro per fare una doccia calda e bere una tazza di tè, quando ci sentiamo stanchi, i soli a poter infine tornare a casa quando ne abbiamo abbastanza.

Alcuni ritengono che la cosa moralmente giusta da fare sia mostrare solidarietà diretta restando sul campo con i migranti, dormire nelle giungle, mangiare lo stesso cibo, e così via. Questa è una parte importante del nostro lavoro a Calais, non possiamo dimenticare che è il fatto di avere questi privilegi rende possibile il nostro lavoro. Tuttavia, non sono solo gli attivisti sul campo a fare la differenza, ma anche quelli che organizzano benefit, raccolgono denaro e rifornimenti, e pubblicizzano la campagna organizzando serate di informazione. Anche se può dare la sensazione di non fare abbastanza, è comunque una parte importante del lavoro: non si può mantenere una presenza efficace a lungo termine senza un posto dove stare, o provare a rimediare alle carenze degli enti di beneficenza senza il denaro e i materiali raccolti dai compagni che lavorano a casa.

Non è possibile rinunciare al privilegio finchè si posseggono ancora uno o più dei tratti che ti rendono superiore ai migranti, agli occhi delle autorità. Quello che è importante è lottare per un mondo senza queste gerarchie … e se possiamo usare la nostra posizione per sovvertire particolari privilegi, allora perché non farlo?

Di tanto in tanto, le amicizie tra europei e migranti si sviluppano con enormi disuguaglianze pratiche che possono complicarsi, in particolare in termini di dipendenza. È naturale e meraviglioso non controllare le amicizie a Calais, ma è importante tenere alcune cose in mente. Prima o poi, attivisti e migranti, partiranno lasciandosi alle spalle amicizie e relazioni. E’ confortante l’idea che i nostri amici riescano ad attraversare il confine, ma una volta dall’altra parte non sarà facile mantenere i contatti.

Ma spesso dopo mesi di permanenza al campo sono ancora lì, depressi, disillusi, o forse anche risentiti della tua libertà. Quando arriva il momento di ripartire, ci sono domande inevitabili: “Tu sei libero, puoi venire qui ogni volta che vuoi – io non ho nulla, quindi perché non rimani qui con me?

Quando si tratta di persone vulnerabili, soprattutto se sono giovani, vale la pena pensare a quale effetto queste dipendenze possono avere. Se si può parlare la stessa lingua e discutere delle difficoltà della situazione è un conto, ma in luoghi come Calais è facile arrivare a conoscere persone abbastanza bene con solo poche parole in comune. Telefonarsi ogni pochi giorni è un modo di mantenere un rapporto di amicizia, ma resta la questione degli effetti di una crescente dipendenza se la persona non riesce ad attraversare il confine per mesi o anni.

Tutti i rapporti mutano, la comunicazione e le aspettative cambiano notevolmente, e possono nascere splendide amicizie. Ma portare ogni rapporto a questo livello può condurre a complicazioni. Anche se rispettare la vulnerabilità della persona non significa necessariamente sviluppare meno solidarietà reciproca o una relazione meno positiva, tuttavia, data la nostra posizione privilegiata, vi è più onere su di noi per quanto riguarda la comprensione e il rispetto delle esigenze di persone che vivono nella privazione e hanno subìto traumi.

E’ importante riconoscere il privilegio e valutare i suoi effetti sulle nostre relazioni, ma è anche inutile, semplicistico e ingenuo inserire in blocco i sans-papier in una singola classe di soggetti svantaggiati.

Inutile perché può indurre nei migranti un senso di vergogna per la propria condizione o atteggiamenti di deferenza verso gli europei in genere. Distinguere le persone esclusivamente secondo la scala dei privilegi ignora l’umanità di quelli con cui stiamo lavorando, e contribuisce a rafforzare le divisioni.


E’ anche ingenuo perché il privilegio esiste in varie forme, come i privilegi di genere o economici. I campi a Calais sono quasi esclusivamente di sesso maschile; in molte delle strutture sociali dei paesi di origine dei migranti le donne vengono generalmente lasciate indietro o sono incapaci di finanziare e organizzare il proprio viaggio. Le donne migranti sono quindi una netta minoranza nelle giungle, e corrono più rischi per le strade se vengono separate dai loro compagni maschi, come spesso avviene.

Inoltre molti migranti in transito in Europa sono relativamente benestanti nei loro paesi poiché questi viaggi costano migliaia di euro. Ci sono anche migranti ricchi che non possono ottenere un visto per altri motivi, come pure coloro che realizzano un profitto trafficando alla frontiera.

C’è un certo filone del discorso antirazzista militante, negli Stati Uniti in particolare, che suggerisce che tutti i bianchi siano intrinsecamente razzisti, e alcuni, come il collettivo Dissenso Europeo, sostengono addirittura che chi combatte il razzismo dovrebbe accettare una leadership nera. Questa retorica è controproducente e carica di liberalismo radicale e di politica della colpa. Il concetto di razzismo innato dei bianchi e il suggerimento che dovremmo accettare una gerarchia perché al vertice ci sono le minoranze più svantaggiate non solo rispecchia un atteggiamento condiscendente ma perpetua distinzioni sulla base del colore, così come il più ampio e più fondamentale problema della gerarchia stessa. Un’analisi così estrema non ha trovato molto riscontro tra i No Borders in Europa, abbiamo occasionalmente incontrato prospettive che compensavano il privilegio attraverso reticenza e inazione in modo da consentire ai migranti di prendere l’iniziativa. Non vi è nulla di male nel fare sforzi supplementari per lavorare in modo più inclusivo possibile, ma dobbiamo diffidare da qualsiasi approccio che esprima senso di colpa o che comporti di tenere per noi le nostre opinioni in cambio del privilegio. Noi siamo intenzionati a lavorare da pari, senza mai deferire agli individui sulla base della classe o etnia.

In definitiva, è importante rendersi conto che i migranti sono persone ordinarie in circostanze straordinarie, con il proprio bagaglio culturale o di altro tipo, e dobbiamo quindi essere cauti nel valorizzarli. Lavorare da pari a pari significa non parlare verso il basso alla gente, ma significa anche rifiutare i comportamenti irrispettosi. Se il rispetto non è ricambiato e lo portiamo avanti a prescindere, allora non siamo fedeli alle nostre convinzioni.

Ma dobbiamo anche essere cauti nel giudicare il comportamento secondo le nostre norme culturali. Per esempio, mentre il pregiudizio è normalmente diffuso anche tra i migranti, i sospetti, le antiche ostilità e le tensioni etniche non si sviluppano nel vuoto. Capita che gli unici incontri tra afgani e kurdi siano esperienze negative. Dallo sfruttamento mafioso alle rapine sulle strade di Iran e Turchia al sequestro di bambini afgani in transito per estorcere denaro ai loro genitori: queste esperienze non sono rare tra i migranti irregolari. Mentre è bene sfidare i pregiudizi, tutte le ostilità inter-etniche dovrebbero essere lette in questo contesto.

Differenze culturali

I confini possono essere melting pot pieni di opportunità di scambio interculturale. Questo rimane uno degli aspetti più belli e vitali del lavoro con i migranti.

Il rovescio della medaglia è che, mentre noi non ci aspettiamo di conformarci alle convenzioni culturali dei migranti quando viviamo nelle comunità, sarebbe ingenuo pensare che le persone non abbiano interiorizzato alcuno dei valori prevalenti nei loro paesi di origine.

Ciò significa che le attiviste di sesso femminile, in particolare, devono considerare le convenzioni presenti in questi paesi, ed evitare di indossare abiti succinti o abbracciare amici migranti pubblicamente, poiché sono segni che possono confondere. Per quanto ci piacerebbe vedere la fine simultanea dei controlli sull’immigrazione e del patriarcato, dobbiamo accettare questi compromessi se vogliamo seriamente impegnarci con i migranti in una lotta per la libertà di movimento.

Questo suggerimento è stato criticato da alcuni e indicato come sessista. Siamo d’accordo che si tratta di sessismo, ma questo è solo un riflesso di atteggiamenti prevalenti nella società, da cui i migranti non sono affatto magicamente immuni. Che alcune persone, a prescindere dal luogo da cui vengono, percepiscano un abbraccio come un approccio, è una realtà di vita che noi dobbiamo aggirare se vogliamo affrontare quello che è già un incredibilmente complesso e profondo problema, che non ha bisogno confusione aggiunta esclusivamente per fare appello alla sensibilità radicali degli attivisti.

Questo argomento solleva un’altra questione spinosa, che è quello della responsabilità verso gli altri membri delle nostre comunità. Coloro che scelgono di essere affettuosi e fisici con i migranti (amici e non) di fronte agli altri, devono prendere in considerazione le implicazioni su altri membri del gruppo. Ricordate di essere osservati da persone con una limitata conoscenza dell’Inglese e che si baseranno quasi esclusivamente sul vostro comportamento nel giudizio su di voi. Questo potrebbe influenzare la percezione del gruppo e mettere in ombra le ragioni della nostra presenza essere lì.

Questo non significa che dovremmo semplicemente accettare i comportamenti impropri. Anche se raramente, a Calais ci siamo occupati di un numero di casi di comportamenti o commenti sessuali inappropriati discutendone gli con gli autori in presenza di altri membri della loro comunità, spiegando chiaramente che cosa stiamo facendo a Calais e perché abbiamo sentito che il loro comportamento era irrispettoso. Altri migranti ci hanno sostenuto in questo.

E’ anche con l’esempio che si realizza il rispetto. Come detto, in circostanze difficili o disperate le persone possono essere più aperte a nuove idee, e molti dei No Borders impegnati a Calais sono donne. Anche una superficiale ricerca sui costumi dei paesi di origine può aiutare a capire il motivo per cui non dovremmo prevedere le stesse reazioni che ci aspetteremmo dagli europei. L’Afghanistan, per esempio, ha un sistema di rigorosa segregazione di genere, con le donne e gli uomini che non interagiscono al di fuori della famiglia.

Si può essere tentati di passare più tempo con le comunità con cui sentiamo maggiori elementi in comune, o maggiore vicinanza culturale. Poter condividere alcune birre con i migranti eritrei ed etiopi – a maggioranza cristiani – significa legare con loro più rapidamente che con alcuni dei migranti musulmani, a meno di non fare uno sforzo consapevole per avvicinarci ad altre comunità, nonostante sia richiesta una mole di lavoro maggiore.

E’ naturale essere inclini a trascorrere il tempo con coloro con i quali condividiamo degli interessi, ma dobbiamo stare attenti a non cadere nella trappola del favoritismo. Alcune comunità possono essere colpite più duramente di altri, o affrontare più difficili condizioni di vita; ed è questo che in definitiva dovrebbe orientare il flusso dei nostri sforzi. Dobbiamo lavorare per favorire legami tra le diverse comunità, se siamo determinati a superare i confini, anche se le consuetudini possono rendere ciò molto complicato.

Un’altra cosa importante è non dare inconsciamente la preferenza a quelli con più capacità di comunicare con noi.

Abbiamo registrato un numero di incidenti in cui l’interprete ha agito come portavoce. In tutte le occasioni tra i migranti si è diffusa la frustrazione, hanno criticato il loro traduttore o scelto qualcun altro, ma sono stati gravemente ostacolati nella loro capacità di comunicare a causa del loro numero e dei limiti di tempo.

Analogamente, lavorare con intermediari dovrebbe essere una scelta considerata con molta attenzione, tanto più che molti migranti non sono in realtà parte di una particolare comunità ma in possesso di qualche qualità che permette loro di diventare una sorta di portavoce.

L’importanza dell’onore e della vergogna in molte società mediorientali è spesso trascurata dagli operatori, che sono troppo distaccati da quelli con cui lavorano. Vale la pena ricordare che alcuni preferiscono rimanere senza cibo se trattati con mancanza di rispetto, come è stato illustrato durante il maleducato e condiscendente trattamento di migranti sudanesi da parte di un ente di beneficenza a Calais che ha portato a una breve boicottaggio del loro programma di distribuzione del cibo.

La cultura dell’onore è anche un altro motivo per cui un approccio basato sulla solidarietà può generare relazioni più forti e durature di uno fondato sulla carità. Vale la pena considerare che la nostra cultura agisce come una barriera potenziale al lavoro con i migranti. Per quanto abbia attrattiva e risonanza politica, la cultura DIY può essere estremamente esclusiva.

Siamo a conoscenza di un evento di solidarietà, progettato per attrarre circa duecento richiedenti asilo afghani, con birra e assordante musica punk. Non sorprende che solo un gruppetto fosse presente. Le donne in topless al campo No Borders di Calais sono un altro esempio, ed probabilmente anche un altro segno dell’imperialismo culturale.

Mafia

La mafia è generalmente ostile agli attivisti, in quanto ha bisogno di mantenere migranti in uno stato di dipendenza per ottenere profitto.

A Calais, dove abbiamo cercato di incoraggiare l’autonomia dei migranti, la mafia ci ha subito visto come una minaccia. Sfruttavano sfiducia e paure della gente così come i nostri ostacoli linguistici nel tentativo di danneggiare le relazioni. Ciò comprendeva la diffusione di voci secondo cui noi lavoravamo per la polizia, e che tutte le attiviste erano prostitute.

E’ facile bollare tutti i trafficanti come sfruttatori, e molti in effetti lo sono. Anche se questa è l’immagine prevalente spacciata dalla stampa aziendale, la situazione è molto più complessa, e dobbiamo accettare che ci siano un sacco di informazioni di cui non veniamo a conoscenza attraverso i media ufficiali.

In primo luogo, la linea di distinzione tra migranti e mafia è confusa e irregolare. La mafia gestisce un’economia sommersa ai cui le persone ricorrono quando rimangono alla frontiera troppo a lungo e a corto di soldi, dal momento che altre possibilità di guadagno vengono loro precluse. Rete di migranti e mafia significa che non c’è un gruppo di individui temuti e violenti, ma un assortimento di persone ordinarie e disperate con vari gradi di coinvolgimento.

In secondo luogo, i trafficanti hanno avuto un grande successo nel distorcere i confini politici e nel minare i controlli sull’immigrazione. Hanno esperienza e sono altamente organizzati in reti fluide, costantemente in evoluzione e sopravvissute ai tentativi dello Stato di respingere gli individui.

Con questo non vogliamo idealizzarli, ma cercare comprensione più approfondita di ciò che sono i contrabbandieri, e il loro ruolo fondamentale dell’immigrazione irregolare. Una volta che arrivano a conoscervi, probabilmente non vi vedranno più tanto come una minaccia. Perseveranza e attenzione a non assumere comportamenti che potrebbero far sospettare un vostro coinvolgimento con la stampa o con la polizia, faranno scomparire la maggior parte dei problemi con il tempo.

RADICAL MIGRANT SOLIDARITY [ITA 1/4]

Radical Migrant Solidarity [ITA]


Iniziative, osservazioni e idee dalla lotta contro il regime dei confini

[di Calais Migrant Solidarity / traduzione italiana di Rete No Borders Genova]

Prefazione

Questo testo è pensato come strumento teorico di base per il lavoro di solidarietà radicale con le comunità di migranti.

Anche se noi ci concentriamo sui temi specifici che sorgono lavorando con migranti senza documenti, i principi di base sui quali operiamo e alcune delle tattiche utilizzate, possono essere trasferite nel lavoro di solidarietà con altre comunità.

Qui esaminiamo il concetto di solidarietà, esploriamo potenziali ostacoli del lavoro con le comunità migranti, e suggeriamo strade da intraprendere per superarli. Inoltre consideriamo alcune delle sfide più significative incontrate dai migranti in Europa, suggeriamo approcci che gli attivisti possono avere per aiutare a risolverle, ed elenchiamo una serie di iniziative radicali da cui trarre ispirazione.

Questa teoria e queste pratiche derivano principalmente dalle esperienze con i migranti degli attivisti No Borders – UK, e di quelli di Calais che lavorano sotto la bandiera di Calais Migrant Solidarity (CMS). Anche se abbiamo incluso esempi di alcuni progetti significativi in altri luoghi d’Europa e d’oltremare, è necessario dichiarare che è stato impossibile menzionarne molti altri.

Speriamo che condividere queste informazioni renda più efficace il lavoro, in particolare con le comunità di migranti senza documenti, che la ripida curva di apprendimento che abbiamo sperimentato a Calais e in altri luoghi possa essere condivisa con quelli che sono nuovi a questo campo dell’attivismo.

Questo testo è dedicato a Marie-Noëlle, la prima attivista No Borders a Calais e un’ispirazione per infiniti altri. Tu hai avuto il coraggio di gridare nell’oscurità e di combattere da sola contro le forze dell’oppressione. Lo spirito della tua resistenza vive ancora.

 

Parte 1 – SOLIDARIETA’ IN TEORIA

 

Il movimento No Borders opera implicitamente sui principi anarchisti di libertà, uguaglianza e solidarietà reciproca. Queste sono le basi della nostra convinzione che le persone dovrebbero essere libere di migrare dove vogliono; che questa libertà si applica a tutti senza distinzione di razza o nazionalità; e che le persone dovrebbero bypassare lo stato per supportare direttamente coloro che non hanno questa libertà. Questa necessità è sempre pressante in vista della natura sempre più securitaria, sofisticata e letale dei controlli globali di confine: le economie industrializzate lottano per fortificare i loro paradisi di ricchezza in via di disintegrazione, e presentano una narrazione che strumentalizza i migranti per obiettivi politici sensibili.

La rete No Borders riconosce che la grande maggioranza della popolazione mondiale, noi compresi, è sfruttata e oppressa dal capitalismo e dallo Stato. E’ questo riconoscimento di una causa comune che permette a una cultura di solidarietà e aiuto reciproco di emergere.

Comunque, la carità – il contrario della solidarietà – non ha relazioni con questo riconoscimento di un interesse comune; essa serve a rinforzare le gerarchie e i privilegi e a conservare l’ordine socio-economico esistente. Gli enti di beneficienza operano solo negli ambiti che sono loro permessi dai governi e, nonostante siano i mezzi prevalenti di supportare le comunità oppresse, possono essere parte del problema in quanto legittimano le azioni dei governi che hanno generato inizialmente le crisi. I vincoli a loro posti dai governi possono facilmente diventare strumenti di oppressione se definiscono le necessità delle comunità oppresse in accordo con le politiche di stato, invece di lasciare che tali comunità articolino autonomamente le loro esperienze e volontà.

Per realizzare il cambiamento sociale, noi – quindi – non abbiamo altre opzioni che di lavorare insieme in solidarietà: nel creare relazioni di fiducia e rispetto, dove cerchiamo di sfidare i nostri privilegi e colmare l’abisso tra noi e “gli altri”.

Eppure, nonostante la nostra comunanza, nel contesto dell’immigrazione, riconosciamo anche le enormi differenze di privilegi tra quelli con e quelli senza documenti. Colore che possono impegnarsi in aperta resistenza e spesso farla franca, che possono muoversi nei sistemi legali e burocratici con relativa facilità, che parlano la lingua locale, che hanno la sicurezza data dalla ricchezza e dall’educazione. E quelli troppo in confidenza con i pericoli dati dal ribellarsi o dal prendersi i necessari rischi per la sopravvivenza; quelli segnati dalla guerra o dalla tortura, quelli che hanno abbandonato la speranza di una vita migliore, dopo anni di deportazioni da un paese e da un centro di detenzione a un altro.

Date le basi teoriche del movimento No Borders, e gli squilibri di potere che rimangono tra i migranti con e senza documenti, la via in cui operiamo è critica, per sovvertire questa dinamica e destabilizzare i legami che ci tengono separati. Dove possibile, ci sforziamo quindi di lavorare nel modello orizzontale della solidarietà piuttosto che nel modello verticale della carità.


Responsabilità

La solidarietà è un duplice processo. In primo luogo, significa affrontare il ruolo che inavvertitamente giochiamo nel perpetuare le diseguaglianze e impegnarsi in un modello di resistenza che provi a smantellare queste gerarchie. Purtroppo, un ethos capitalista può rovesciarsi sul nostro attivismo, così vediamo alcuni militanti lottare per superare il proprio ruolo di “fornitore di servizi” o latore di carità, mentre coloro con i quali stanno lavorando sono visti come passivi consumatori di supporto.

In secondo luogo, la solidarietà ci incoraggia a lavorare in cooperazione con le comunità oppresse. Possiamo, ad esempio, dover fare compromessi sulle nostre tattiche privilegiate per ottenere un cambiamento, se questo non contravviene ai nostri principi fondamentali.

Assumere o insistere su un’attitudine conflittuale con la polizia può ben sposarsi con le politiche anti-autoritarie radicali, ma questo è mettere al primo posto le esigenze di coloro con cui stiamo lavorando? E ‘una tattica che ha il suo posto, ma, come tutte le tattiche, non è opportuna per tutte le occasioni. Tenendo conto delle esigenze di solidarietà, dovremmo discutere quanto questo approccio sia accessibile a coloro che con precari status di immigrazione. Anche se a Calais le persone sono quasi universalmente soddisfatte della nostra resistenza alla polizia, ci deve essere una comprensione dei limiti dell’accettabile. A volte la sensibilità e il compromesso saranno necessari.

Insistere sempre in una posizione senza compromessi, lungi dall’essere hardcore e all’avanguardia, ha connotazioni di cultura imperialista e arrogante.

Questo non vuol dire che dovremmo dare sentenze di valore a favore dei migranti o sui metodi di azione che vogliono adottare; ma semplicemente che quando ci impegnamo in progetti congiunti che li riguardano, i migranti devono sempre essere consultati sugli approcci che teniamo, che le loro esigenze di uguali devono essere rispettata che essi possono avere molto più da perdere che quelli di noi in possesso di documenti.


Cooperazione

Nel caso particolare di solidarietà ai migranti, ciò dovrebbe tradursi in flessibilità e apertura mentale di ciò che significa resistenza, e in un riconoscimento di come il privilegio può inclinare la nostra comprensione di ciò.

Ad esempio, nelle democrazie liberali, molti attivisti sono caduti nello schema fisso di usare l’azione diretta non violenta in un tentativo, spesso vano, di appellarsi ai media mainstream, credendo che raccontare la storia pubblicamente farà alla fine crollare governi e aziende sotto la pressione dell’opinione pubblica. Questa valutazione errata della nostra capacità di influenzare la politica deriva in parte dal background relativamente privilegiato di molti attivisti.

Considerate questa strategia dal punto di vista, ad esempio, degli eritrei richiedenti asilo. Nel loro paese di origine, dove la stampa è fortemente imbavagliata e le manifestazioni pacifiche violentemente sedate, questa strategia non violenta orientata ai media non è semplicemente nella lista delle possibilità. Essi possono quindi vedere questo approccio con scetticismo, e con l’imperativo di rimanere invisibili alla vista del pubblico, molti resteranno nascosti dietro un velo di clandestinità, rendendo la protesta pubblica contro-intuitiva.

Ci sono naturalmente innumerevoli casi in cui i migranti sono scesi nelle strade in protesta – le manifestazioni di regolarizzazione dei sans-papiers a Parigi sono un buon esempio. Eppure, per i migranti in transito o quelli che sono andati a terra (have gone to ground??), la resistenza può assumere forme più sottili, come la sovversione attraverso tattiche di evasione; l’aiuto reciproco attraverso la condivisione di competenze, informazioni e risorse materiali, e strategie collettive di difesa.

Possiamo imparare molto da coloro che vivono nell’ombra, e dalla forza che essi ricavano dalle loro culture.

Gli attivisti a Calais, per esempio, sono stati colpiti dall’incredibile spirito, energia e solidarietà dimostrati da molti all’interno della comunità Pashtun, anche anche se alcuni non si conoscevano prima del loro arrivo in città. Il desiderio di cantare, ballare, scherzare e giocare nonostante le circostanze miserabili è incredibile.

Allo stesso modo, la grande ospitalità e generosità di coloro con così poco da offrire è confortante.

La solidarietà dimostrata dai migranti si presenta sotto le forme più varie: ci sono quelli che indeboliscono la mafia aiutandosi reciprocamente a passare il confine senza pagare, nonostante gli enormi rischi; gli adulti che si occupano di minori non accompagnati; quelli che danno l’allarme quando la polizia irrompe nei campi e, così facendo, attirano l’attenzione su di sé; e i campi dove gli sconosciuti che cercano rifugio sono benvenuti. Tutte queste sono cose dalle quali trarre ispirazione. Nonostante le condizioni create per distruggere i legami e dare adito a violenza e sfruttamento, molti ancora si sforzano di sostenere quelli in una situazione simile, indipendentemente dal fatto che siano noti a loro personalmente.

Attivisti CMS hanno affermato di aver avuto i loro pregiudizi circa l’attivismo intrapreso, e di aver dovuto ri-concettualizzare il termine attivista in riconoscimento degli anni che molti migranti hanno trascorso sovvertendo i confini e aiutandosi l’un l’altro di fronte all’oppressione dello Stato.

Come tale, crediamo di dover impegnare le nostre energie nel sostenere l’esistente movimento di resistenza, fornire strumenti per aiutare a resistere al controllo, essere trasparenti circa la nostra politica e le ragioni di questo lavoro.

Non solo è molto efficace, ma questo approccio è di gran lunga più responsabilizzante di lavorare in nome dei richiedenti asilo – ciò è fondamentale in vista della crescente natura de-responsabilizzante del sistema di asilo e di gestione dell’immigrazione. Trattare l’altro come pari favorisce anche un maggiore rispetto reciproco di un atteggiamento condiscendente come quello a volte mostrato da enti di beneficenza per rifugiati o, al contrario, di un approccio deferente che tratta i migranti puramente come vittime irreprensibili.


Lavorare come eguali

Come accennato, la carità comporta una divisione implicita tra i donatori e beneficiari di aiuti. Suggerisce un confine che i destinatari non devono attraversare, che li tiene nel loro ruolo di oggetti di filantropia e lascia incontrastato il nostro privilegio di benefattori. Le possibilità di trovare un terreno comune in tali circostanze sono scarse, per coloro che si dedicano a questo lavoro significa impostare se stessi ad una enorme distanza da quelli con cui si lavora. Sentire che stiamo facendo qualcosa, invece di niente, serve ad alleviare il senso di colpa – ma chi, oltre quelli con interesse a mantenere lo status quo potrebbe davvero essere contento di questa disposizione? La carità muove i nostri interessi uno contro l’altro, invece di dichiarare che abbiamo un interesse condiviso nel radicale cambiamento sociale.

Nonostante questo, alcune circostanze possono dar luogo a un conflitto tra il rimanere nelle retrovie consentendo ai migranti di prendere l’iniziativa, e la necessità di agire in modo responsabile e sicuro. Questo può accadere quando si lavora con i minori, o quando i migranti si mettono seriamente a rischio, come nel caso di scioperi della fame.

Questi presentano inevitabilmente grossi problemi per gli attivisti. In un caso nel quale sei Iraniani richiedenti asilo respinti sono stati 37 giorni senza cibo, c’è stata una grande tensione tra la volontà di convincerli a rompere lo sciopero una volta ottenuta la loro prima vittoria (un avvocato), e quella di voler rispettare le loro scelte. Questa situazione è stata aggravata da un’assenza di opzioni alternative da suggerire e, dato che si trattava di dissidenti fuggiti un paese infestato di polizia segreta, era ulteriormente aggravata da una paura di compromettere la fiducia che avevamo costruito, diventando troppo insistenti.

La sfida di trovare un equilibrio tra l’intervento e il rispetto dell’autonomia è ulteriormente complicata dal concetto di ‘impostazione dei legami’, che è costantemente sostenuto da enti di beneficenza e gruppi tradizionali per i diritti dei migranti.

L’idea che dobbiamo essere chiari su ciò che stiamo facendo, perché lo stiamo facendo, e cosa noi riteniamo essere un comportamento inaccettabile quando lo vediamo, è chiaramente sensibile; come lo è il prendersi una pausa se hai lavorato intensamente senza sosta.

Può anche essere poco saggio essere coinvolti in una relazione sessuale con qualcuno che ha appena vissuto un’esperienza particolarmente traumatica.

D’altra parte, è solo lo status di immigrazione sola che unisce i migranti senza documenti. Essi costituiscono un mix eclettico di esseri umani che hanno subito diverse esperienze, e non vi è alcuna ragione per cui il loro status giuridico dovrebbe determinare che tipo di rapporto si ha e quanto vicino si arriva a un dato individuo. In ambienti intensi ed emotivi come Calais o Ventimiglia, alcune relazioni sono inevitabilmente sorte tra migranti e attivisti, e sembra che abbiano avuto l’effetto di rafforzare i nostri legami.

Tuttavia, gli attivisti hanno bisogno di essere profondamente consapevoli della miriade di ragioni per le quali relazioni potrebbero svilupparsi. Oltre alla genuina attrazione, potrebbero essere innescate dal dolore (per parenti e partner morti o dispersi), da un senso irrazionale di soggezione nei confronti di coloro che mostrano gentilezza in un ambiente altrimenti ostile, dalla percezione che gli attivisti sono un passaporto dalla miseria, dalla giovane età di molti richiedenti asilo, dall’amtmosfera relativamente libera dell’Europa. Prendendo in considerazione questi fattori, gli attivisti devono essere prudenti su quale tipo di responsabilità e potere potrebbero avere su una persona e agire di conseguenza.

Un aspetto del “boundary setting” che dovrebbe essere eliminato del tutto è l’idea che non si possa essere amici con quelli con cui si lavora, in quanto sarebbero troppo fragili per gestire l’amicizia, troppo bisognosi, troppo emotivi…

Al contrario, a Calais abbiamo sempre considerato la maggioranza dei sans-papiers come compagni, e con gran parte di loro abbiamosviluppato amicizie più strette. E quando si assume ruolo di genitore surrogato per ragazzi adolescenti, queste emozioni si manifestano inevitabilmente. Semplicemente non è possibile fornire un sostegno significativo rimuovendo le emozioni.

Dal momento che l’attivismo di Calais è tutto dipendente dalla nostra capacità di comunicare con la popolazione migrante, e permettere alle loro idee di condizionare il nostro lavoro, sarebbe impossibile non sviluppare queste relazioni.

Il volontariato d’altra parte non ha necessariamente bisogno di coltivare la fiducia, dal momento che i volontari spesso prendono su di sé la decisione in risposta ad una crisi piuttosto che interfacciarsi con ‘gli utenti dei servizi’ per scoprire ciò che vogliono.


Un’agenda radicale

Forse è un’osservazione cinica, ma si dice spesso che nei tempi di crisi le persone siano più recettive verso le nuove idee, e più capaci di comportamenti estremi.

Dimostrazioni di mutuo sostegno in queste situazioni possono aprire nuove opportunità per atti creativi di gentilezza e generosità in un ciclo di reciprocità. Dobbiamo solo guardare lo spirito di aiuto reciproco mostrato dai manifestanti in piazza Tahrir durante la Rivoluzione egiziana, dopo aver recuperato lo spazio pubblico e acquisito la libertà di decidere delle proprie vite. Nonostante il clima di tensione, è stato ampiamente riportato che dei volontari regolarmente pulivano le strade dopo gli scontri, garantivano assistenza sanitaria ai manifestanti, distribuivano cibo gratuitamente. La forza dell’unità e la natura responsabilizzante della solidarietà sono fondamentali per la creazione di questo circolo virtuoso.

Esperienze collettive a pressione elevata ed emotivamente esigenti possono diventare anche momenti di relazione potenti e memorabili, che danno luogo a rapporti intensi, nati rapidamente. Ad esempio, le persone possono riversare le loro storie o mostrare livelli insoliti di apertura, qualcosa a cui possiamo rispondere solo con un pari livello di sincerità. Possiamo anche sperimentare difficoltà collettive – le misere condizioni di vita, le vessazioni della polizia, le aggressioni, gli arresti, le provocazioni – che favoriscono forti sentimenti di empatia e cameratismo.

E ‘stato bello per noi discutere di politica radicale con dissidenti sudanesi, iraniani, iracheni e curdi a Calais, o ascoltare migranti riferirsi a se stessi come “attivisti NoBorders”. La politica antiautoritaria ribolle costantemente sotto la superficie in molti di coloro che hanno subito la repressione in casa o che sono stati maltrattati in tutta Europa. Quando i governi sono responsabili della violenza che costringe i popoli a fuggire, e quando altri stati non riescono a offrire protezione, lo si ricorda quando le persone comuni intervengono, e le ragioni del loro agire hanno bisogno di essere chiarite.

lI lavoro di solidarietà concreta è quindi anche l’occasione per costruire movimenti più ampi e forti, necessari per realizzare il cambiamento a lungo termine richiesto per affrontare problemi come il controllo della migrazione alla radice.

Lo scambio di idee tra culture e lo sviluppo di resistenza intercomunitaria è fondamentale per il lavoro dei No Borders, ed è un area che richiede più approfondimento da parte dei radicali in genere. L’unico contatto che un richiedente asilo afgano può aver avuto con gli europei sono le incursioni NATO sulla loro casa o la macchina delle espulsioni UE. Demolire la percezione che tutti i popoli europei hanno gli stessi atteggiamenti imperialisti e sottolineare che i governi non rappresentano necessariamente la loro gente può contribuire a colmare il baratro che genera razzismo e conflitto.


Impegno

Infine, solidarietà significa impegno in obiettivi a lungo termine e responsabilità reciproca, perseveranza nel contrastare la cultura della lotta personale e nel costruire comunità resistenti. La mentalità individualista del consumatore può manifestarsi in attivismo attraverso il coinvolgimento passivo in campagne con poco desiderio di prendere l’iniziativa; o in ‘turismo attivista’, vale a dire, il breve consumo di un’esperienza spinti dal desiderio di autocompiacimento o dalla curiosità invece che da un impegno per il cambiamento sociale.

Abbiamo bisogno di impegno sia nei nostri obiettivi a lungo termine sia nelle singole campagne che mirano a raggiungerli. E’ dedicando il nostro tempo tanto al noioso lavoro di scrivania quanto all’azione adrenalinica che vedremo dei risultati concreti.

In sintesi, solidarietà significa lavorare insieme da eguali attraverso mezzi radicali per raggiungere obiettivi radicali. Non ci limitiamo a distribuire tende, aiutiamo a trovare edifici abbandonati; non serviamo semplicemente il cibo, mettiamo a disposizione attrezzature da cucina; non difendiamo i ‘loro’ squat, ma creiamo le condizioni per la difesa comune degli spazi condivisi.