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RADICAL MIGRANT SOLIDARITY [ITA 1/4]

Radical Migrant Solidarity [ITA]


Iniziative, osservazioni e idee dalla lotta contro il regime dei confini

[di Calais Migrant Solidarity / traduzione italiana di Rete No Borders Genova]

Prefazione

Questo testo è pensato come strumento teorico di base per il lavoro di solidarietà radicale con le comunità di migranti.

Anche se noi ci concentriamo sui temi specifici che sorgono lavorando con migranti senza documenti, i principi di base sui quali operiamo e alcune delle tattiche utilizzate, possono essere trasferite nel lavoro di solidarietà con altre comunità.

Qui esaminiamo il concetto di solidarietà, esploriamo potenziali ostacoli del lavoro con le comunità migranti, e suggeriamo strade da intraprendere per superarli. Inoltre consideriamo alcune delle sfide più significative incontrate dai migranti in Europa, suggeriamo approcci che gli attivisti possono avere per aiutare a risolverle, ed elenchiamo una serie di iniziative radicali da cui trarre ispirazione.

Questa teoria e queste pratiche derivano principalmente dalle esperienze con i migranti degli attivisti No Borders – UK, e di quelli di Calais che lavorano sotto la bandiera di Calais Migrant Solidarity (CMS). Anche se abbiamo incluso esempi di alcuni progetti significativi in altri luoghi d’Europa e d’oltremare, è necessario dichiarare che è stato impossibile menzionarne molti altri.

Speriamo che condividere queste informazioni renda più efficace il lavoro, in particolare con le comunità di migranti senza documenti, che la ripida curva di apprendimento che abbiamo sperimentato a Calais e in altri luoghi possa essere condivisa con quelli che sono nuovi a questo campo dell’attivismo.

Questo testo è dedicato a Marie-Noëlle, la prima attivista No Borders a Calais e un’ispirazione per infiniti altri. Tu hai avuto il coraggio di gridare nell’oscurità e di combattere da sola contro le forze dell’oppressione. Lo spirito della tua resistenza vive ancora.

 

Parte 1 – SOLIDARIETA’ IN TEORIA

 

Il movimento No Borders opera implicitamente sui principi anarchisti di libertà, uguaglianza e solidarietà reciproca. Queste sono le basi della nostra convinzione che le persone dovrebbero essere libere di migrare dove vogliono; che questa libertà si applica a tutti senza distinzione di razza o nazionalità; e che le persone dovrebbero bypassare lo stato per supportare direttamente coloro che non hanno questa libertà. Questa necessità è sempre pressante in vista della natura sempre più securitaria, sofisticata e letale dei controlli globali di confine: le economie industrializzate lottano per fortificare i loro paradisi di ricchezza in via di disintegrazione, e presentano una narrazione che strumentalizza i migranti per obiettivi politici sensibili.

La rete No Borders riconosce che la grande maggioranza della popolazione mondiale, noi compresi, è sfruttata e oppressa dal capitalismo e dallo Stato. E’ questo riconoscimento di una causa comune che permette a una cultura di solidarietà e aiuto reciproco di emergere.

Comunque, la carità – il contrario della solidarietà – non ha relazioni con questo riconoscimento di un interesse comune; essa serve a rinforzare le gerarchie e i privilegi e a conservare l’ordine socio-economico esistente. Gli enti di beneficienza operano solo negli ambiti che sono loro permessi dai governi e, nonostante siano i mezzi prevalenti di supportare le comunità oppresse, possono essere parte del problema in quanto legittimano le azioni dei governi che hanno generato inizialmente le crisi. I vincoli a loro posti dai governi possono facilmente diventare strumenti di oppressione se definiscono le necessità delle comunità oppresse in accordo con le politiche di stato, invece di lasciare che tali comunità articolino autonomamente le loro esperienze e volontà.

Per realizzare il cambiamento sociale, noi – quindi – non abbiamo altre opzioni che di lavorare insieme in solidarietà: nel creare relazioni di fiducia e rispetto, dove cerchiamo di sfidare i nostri privilegi e colmare l’abisso tra noi e “gli altri”.

Eppure, nonostante la nostra comunanza, nel contesto dell’immigrazione, riconosciamo anche le enormi differenze di privilegi tra quelli con e quelli senza documenti. Colore che possono impegnarsi in aperta resistenza e spesso farla franca, che possono muoversi nei sistemi legali e burocratici con relativa facilità, che parlano la lingua locale, che hanno la sicurezza data dalla ricchezza e dall’educazione. E quelli troppo in confidenza con i pericoli dati dal ribellarsi o dal prendersi i necessari rischi per la sopravvivenza; quelli segnati dalla guerra o dalla tortura, quelli che hanno abbandonato la speranza di una vita migliore, dopo anni di deportazioni da un paese e da un centro di detenzione a un altro.

Date le basi teoriche del movimento No Borders, e gli squilibri di potere che rimangono tra i migranti con e senza documenti, la via in cui operiamo è critica, per sovvertire questa dinamica e destabilizzare i legami che ci tengono separati. Dove possibile, ci sforziamo quindi di lavorare nel modello orizzontale della solidarietà piuttosto che nel modello verticale della carità.


Responsabilità

La solidarietà è un duplice processo. In primo luogo, significa affrontare il ruolo che inavvertitamente giochiamo nel perpetuare le diseguaglianze e impegnarsi in un modello di resistenza che provi a smantellare queste gerarchie. Purtroppo, un ethos capitalista può rovesciarsi sul nostro attivismo, così vediamo alcuni militanti lottare per superare il proprio ruolo di “fornitore di servizi” o latore di carità, mentre coloro con i quali stanno lavorando sono visti come passivi consumatori di supporto.

In secondo luogo, la solidarietà ci incoraggia a lavorare in cooperazione con le comunità oppresse. Possiamo, ad esempio, dover fare compromessi sulle nostre tattiche privilegiate per ottenere un cambiamento, se questo non contravviene ai nostri principi fondamentali.

Assumere o insistere su un’attitudine conflittuale con la polizia può ben sposarsi con le politiche anti-autoritarie radicali, ma questo è mettere al primo posto le esigenze di coloro con cui stiamo lavorando? E ‘una tattica che ha il suo posto, ma, come tutte le tattiche, non è opportuna per tutte le occasioni. Tenendo conto delle esigenze di solidarietà, dovremmo discutere quanto questo approccio sia accessibile a coloro che con precari status di immigrazione. Anche se a Calais le persone sono quasi universalmente soddisfatte della nostra resistenza alla polizia, ci deve essere una comprensione dei limiti dell’accettabile. A volte la sensibilità e il compromesso saranno necessari.

Insistere sempre in una posizione senza compromessi, lungi dall’essere hardcore e all’avanguardia, ha connotazioni di cultura imperialista e arrogante.

Questo non vuol dire che dovremmo dare sentenze di valore a favore dei migranti o sui metodi di azione che vogliono adottare; ma semplicemente che quando ci impegnamo in progetti congiunti che li riguardano, i migranti devono sempre essere consultati sugli approcci che teniamo, che le loro esigenze di uguali devono essere rispettata che essi possono avere molto più da perdere che quelli di noi in possesso di documenti.


Cooperazione

Nel caso particolare di solidarietà ai migranti, ciò dovrebbe tradursi in flessibilità e apertura mentale di ciò che significa resistenza, e in un riconoscimento di come il privilegio può inclinare la nostra comprensione di ciò.

Ad esempio, nelle democrazie liberali, molti attivisti sono caduti nello schema fisso di usare l’azione diretta non violenta in un tentativo, spesso vano, di appellarsi ai media mainstream, credendo che raccontare la storia pubblicamente farà alla fine crollare governi e aziende sotto la pressione dell’opinione pubblica. Questa valutazione errata della nostra capacità di influenzare la politica deriva in parte dal background relativamente privilegiato di molti attivisti.

Considerate questa strategia dal punto di vista, ad esempio, degli eritrei richiedenti asilo. Nel loro paese di origine, dove la stampa è fortemente imbavagliata e le manifestazioni pacifiche violentemente sedate, questa strategia non violenta orientata ai media non è semplicemente nella lista delle possibilità. Essi possono quindi vedere questo approccio con scetticismo, e con l’imperativo di rimanere invisibili alla vista del pubblico, molti resteranno nascosti dietro un velo di clandestinità, rendendo la protesta pubblica contro-intuitiva.

Ci sono naturalmente innumerevoli casi in cui i migranti sono scesi nelle strade in protesta – le manifestazioni di regolarizzazione dei sans-papiers a Parigi sono un buon esempio. Eppure, per i migranti in transito o quelli che sono andati a terra (have gone to ground??), la resistenza può assumere forme più sottili, come la sovversione attraverso tattiche di evasione; l’aiuto reciproco attraverso la condivisione di competenze, informazioni e risorse materiali, e strategie collettive di difesa.

Possiamo imparare molto da coloro che vivono nell’ombra, e dalla forza che essi ricavano dalle loro culture.

Gli attivisti a Calais, per esempio, sono stati colpiti dall’incredibile spirito, energia e solidarietà dimostrati da molti all’interno della comunità Pashtun, anche anche se alcuni non si conoscevano prima del loro arrivo in città. Il desiderio di cantare, ballare, scherzare e giocare nonostante le circostanze miserabili è incredibile.

Allo stesso modo, la grande ospitalità e generosità di coloro con così poco da offrire è confortante.

La solidarietà dimostrata dai migranti si presenta sotto le forme più varie: ci sono quelli che indeboliscono la mafia aiutandosi reciprocamente a passare il confine senza pagare, nonostante gli enormi rischi; gli adulti che si occupano di minori non accompagnati; quelli che danno l’allarme quando la polizia irrompe nei campi e, così facendo, attirano l’attenzione su di sé; e i campi dove gli sconosciuti che cercano rifugio sono benvenuti. Tutte queste sono cose dalle quali trarre ispirazione. Nonostante le condizioni create per distruggere i legami e dare adito a violenza e sfruttamento, molti ancora si sforzano di sostenere quelli in una situazione simile, indipendentemente dal fatto che siano noti a loro personalmente.

Attivisti CMS hanno affermato di aver avuto i loro pregiudizi circa l’attivismo intrapreso, e di aver dovuto ri-concettualizzare il termine attivista in riconoscimento degli anni che molti migranti hanno trascorso sovvertendo i confini e aiutandosi l’un l’altro di fronte all’oppressione dello Stato.

Come tale, crediamo di dover impegnare le nostre energie nel sostenere l’esistente movimento di resistenza, fornire strumenti per aiutare a resistere al controllo, essere trasparenti circa la nostra politica e le ragioni di questo lavoro.

Non solo è molto efficace, ma questo approccio è di gran lunga più responsabilizzante di lavorare in nome dei richiedenti asilo – ciò è fondamentale in vista della crescente natura de-responsabilizzante del sistema di asilo e di gestione dell’immigrazione. Trattare l’altro come pari favorisce anche un maggiore rispetto reciproco di un atteggiamento condiscendente come quello a volte mostrato da enti di beneficenza per rifugiati o, al contrario, di un approccio deferente che tratta i migranti puramente come vittime irreprensibili.


Lavorare come eguali

Come accennato, la carità comporta una divisione implicita tra i donatori e beneficiari di aiuti. Suggerisce un confine che i destinatari non devono attraversare, che li tiene nel loro ruolo di oggetti di filantropia e lascia incontrastato il nostro privilegio di benefattori. Le possibilità di trovare un terreno comune in tali circostanze sono scarse, per coloro che si dedicano a questo lavoro significa impostare se stessi ad una enorme distanza da quelli con cui si lavora. Sentire che stiamo facendo qualcosa, invece di niente, serve ad alleviare il senso di colpa – ma chi, oltre quelli con interesse a mantenere lo status quo potrebbe davvero essere contento di questa disposizione? La carità muove i nostri interessi uno contro l’altro, invece di dichiarare che abbiamo un interesse condiviso nel radicale cambiamento sociale.

Nonostante questo, alcune circostanze possono dar luogo a un conflitto tra il rimanere nelle retrovie consentendo ai migranti di prendere l’iniziativa, e la necessità di agire in modo responsabile e sicuro. Questo può accadere quando si lavora con i minori, o quando i migranti si mettono seriamente a rischio, come nel caso di scioperi della fame.

Questi presentano inevitabilmente grossi problemi per gli attivisti. In un caso nel quale sei Iraniani richiedenti asilo respinti sono stati 37 giorni senza cibo, c’è stata una grande tensione tra la volontà di convincerli a rompere lo sciopero una volta ottenuta la loro prima vittoria (un avvocato), e quella di voler rispettare le loro scelte. Questa situazione è stata aggravata da un’assenza di opzioni alternative da suggerire e, dato che si trattava di dissidenti fuggiti un paese infestato di polizia segreta, era ulteriormente aggravata da una paura di compromettere la fiducia che avevamo costruito, diventando troppo insistenti.

La sfida di trovare un equilibrio tra l’intervento e il rispetto dell’autonomia è ulteriormente complicata dal concetto di ‘impostazione dei legami’, che è costantemente sostenuto da enti di beneficenza e gruppi tradizionali per i diritti dei migranti.

L’idea che dobbiamo essere chiari su ciò che stiamo facendo, perché lo stiamo facendo, e cosa noi riteniamo essere un comportamento inaccettabile quando lo vediamo, è chiaramente sensibile; come lo è il prendersi una pausa se hai lavorato intensamente senza sosta.

Può anche essere poco saggio essere coinvolti in una relazione sessuale con qualcuno che ha appena vissuto un’esperienza particolarmente traumatica.

D’altra parte, è solo lo status di immigrazione sola che unisce i migranti senza documenti. Essi costituiscono un mix eclettico di esseri umani che hanno subito diverse esperienze, e non vi è alcuna ragione per cui il loro status giuridico dovrebbe determinare che tipo di rapporto si ha e quanto vicino si arriva a un dato individuo. In ambienti intensi ed emotivi come Calais o Ventimiglia, alcune relazioni sono inevitabilmente sorte tra migranti e attivisti, e sembra che abbiano avuto l’effetto di rafforzare i nostri legami.

Tuttavia, gli attivisti hanno bisogno di essere profondamente consapevoli della miriade di ragioni per le quali relazioni potrebbero svilupparsi. Oltre alla genuina attrazione, potrebbero essere innescate dal dolore (per parenti e partner morti o dispersi), da un senso irrazionale di soggezione nei confronti di coloro che mostrano gentilezza in un ambiente altrimenti ostile, dalla percezione che gli attivisti sono un passaporto dalla miseria, dalla giovane età di molti richiedenti asilo, dall’amtmosfera relativamente libera dell’Europa. Prendendo in considerazione questi fattori, gli attivisti devono essere prudenti su quale tipo di responsabilità e potere potrebbero avere su una persona e agire di conseguenza.

Un aspetto del “boundary setting” che dovrebbe essere eliminato del tutto è l’idea che non si possa essere amici con quelli con cui si lavora, in quanto sarebbero troppo fragili per gestire l’amicizia, troppo bisognosi, troppo emotivi…

Al contrario, a Calais abbiamo sempre considerato la maggioranza dei sans-papiers come compagni, e con gran parte di loro abbiamosviluppato amicizie più strette. E quando si assume ruolo di genitore surrogato per ragazzi adolescenti, queste emozioni si manifestano inevitabilmente. Semplicemente non è possibile fornire un sostegno significativo rimuovendo le emozioni.

Dal momento che l’attivismo di Calais è tutto dipendente dalla nostra capacità di comunicare con la popolazione migrante, e permettere alle loro idee di condizionare il nostro lavoro, sarebbe impossibile non sviluppare queste relazioni.

Il volontariato d’altra parte non ha necessariamente bisogno di coltivare la fiducia, dal momento che i volontari spesso prendono su di sé la decisione in risposta ad una crisi piuttosto che interfacciarsi con ‘gli utenti dei servizi’ per scoprire ciò che vogliono.


Un’agenda radicale

Forse è un’osservazione cinica, ma si dice spesso che nei tempi di crisi le persone siano più recettive verso le nuove idee, e più capaci di comportamenti estremi.

Dimostrazioni di mutuo sostegno in queste situazioni possono aprire nuove opportunità per atti creativi di gentilezza e generosità in un ciclo di reciprocità. Dobbiamo solo guardare lo spirito di aiuto reciproco mostrato dai manifestanti in piazza Tahrir durante la Rivoluzione egiziana, dopo aver recuperato lo spazio pubblico e acquisito la libertà di decidere delle proprie vite. Nonostante il clima di tensione, è stato ampiamente riportato che dei volontari regolarmente pulivano le strade dopo gli scontri, garantivano assistenza sanitaria ai manifestanti, distribuivano cibo gratuitamente. La forza dell’unità e la natura responsabilizzante della solidarietà sono fondamentali per la creazione di questo circolo virtuoso.

Esperienze collettive a pressione elevata ed emotivamente esigenti possono diventare anche momenti di relazione potenti e memorabili, che danno luogo a rapporti intensi, nati rapidamente. Ad esempio, le persone possono riversare le loro storie o mostrare livelli insoliti di apertura, qualcosa a cui possiamo rispondere solo con un pari livello di sincerità. Possiamo anche sperimentare difficoltà collettive – le misere condizioni di vita, le vessazioni della polizia, le aggressioni, gli arresti, le provocazioni – che favoriscono forti sentimenti di empatia e cameratismo.

E ‘stato bello per noi discutere di politica radicale con dissidenti sudanesi, iraniani, iracheni e curdi a Calais, o ascoltare migranti riferirsi a se stessi come “attivisti NoBorders”. La politica antiautoritaria ribolle costantemente sotto la superficie in molti di coloro che hanno subito la repressione in casa o che sono stati maltrattati in tutta Europa. Quando i governi sono responsabili della violenza che costringe i popoli a fuggire, e quando altri stati non riescono a offrire protezione, lo si ricorda quando le persone comuni intervengono, e le ragioni del loro agire hanno bisogno di essere chiarite.

lI lavoro di solidarietà concreta è quindi anche l’occasione per costruire movimenti più ampi e forti, necessari per realizzare il cambiamento a lungo termine richiesto per affrontare problemi come il controllo della migrazione alla radice.

Lo scambio di idee tra culture e lo sviluppo di resistenza intercomunitaria è fondamentale per il lavoro dei No Borders, ed è un area che richiede più approfondimento da parte dei radicali in genere. L’unico contatto che un richiedente asilo afgano può aver avuto con gli europei sono le incursioni NATO sulla loro casa o la macchina delle espulsioni UE. Demolire la percezione che tutti i popoli europei hanno gli stessi atteggiamenti imperialisti e sottolineare che i governi non rappresentano necessariamente la loro gente può contribuire a colmare il baratro che genera razzismo e conflitto.


Impegno

Infine, solidarietà significa impegno in obiettivi a lungo termine e responsabilità reciproca, perseveranza nel contrastare la cultura della lotta personale e nel costruire comunità resistenti. La mentalità individualista del consumatore può manifestarsi in attivismo attraverso il coinvolgimento passivo in campagne con poco desiderio di prendere l’iniziativa; o in ‘turismo attivista’, vale a dire, il breve consumo di un’esperienza spinti dal desiderio di autocompiacimento o dalla curiosità invece che da un impegno per il cambiamento sociale.

Abbiamo bisogno di impegno sia nei nostri obiettivi a lungo termine sia nelle singole campagne che mirano a raggiungerli. E’ dedicando il nostro tempo tanto al noioso lavoro di scrivania quanto all’azione adrenalinica che vedremo dei risultati concreti.

In sintesi, solidarietà significa lavorare insieme da eguali attraverso mezzi radicali per raggiungere obiettivi radicali. Non ci limitiamo a distribuire tende, aiutiamo a trovare edifici abbandonati; non serviamo semplicemente il cibo, mettiamo a disposizione attrezzature da cucina; non difendiamo i ‘loro’ squat, ma creiamo le condizioni per la difesa comune degli spazi condivisi.

La solidarietà è un’arma di Resistenza!

Sono passati dieci mesi da quel 12 giugno, da cui tutto è cominciato. Il confine di Ventimiglia, la protesta, gli scogli, la solidarietà internazionale e poi il presidio permanente: cento giorni di lotta insieme ai migranti, per abbattere questo confine disumano che nega la libertà e la vita.  Da allora tante cose sono cambiate, persone in movimento hanno stretto relazioni, organizzato collettivi, condiviso informazioni, idee, e diffuso una rete di supporto ai migranti e di lotta alle frontiere, che agisce dentro e fuori i confini europei.

E le migrazioni non si sono mai arrestate. L’inverno ha significato soltanto una riduzione del flusso nel mediterraneo, e dunque un accumulo di persone sulle coste del nord Africa, in attesa di imbarcarsi. La situazione in Libia è degenerata con la minaccia di interventi massicci da parte della Nato, non appena il clima lo ha permesso sono ricominciati i viaggi e gli sbarchi nelle isole.

Il 18 aprile quattro barconi con 400 migranti a bordo sono naufragati al largo della costa, si sono salvati in 29.

Quei fortunati che riescono a raggiungere, clandestinamente, il territorio europeo, vengono innanzitutto incarcerati in strutture detentive (i cosiddetti Hotspot) senza alcuna legittimità o legislazione, privati di ogni oggetto personale e di tutti i diritti umani, poi identificati, schedati, e lasciati ad aspettare.
Che cosa? Che una commissione decida sul loro futuro di individui. Se provengono da una zona di guerra ufficialmente riconosciuta, hanno diritto d’asilo. Se invece sono in fuga dalla fame, da una guerra civile non documentata, da una dittatura che li perseguita o semplicemente sono in cerca di un luogo in cui venga rispettata la libertà, vengono caricati su un aereo e rispediti la da dove sono venuti. Di solito si tratta di quei paesi dell’Africa centrale, a quattro-cinquemila chilometri dall’Italia, da cui sono fuggiti anni prima, iniziando un viaggio che conteneva tutte le speranze della loro vita.

Bruciare i Cie! Bruciare gli Hotspot! Ma dopo?
Chi riesce a evitare l’identificazione, perché non vuole rimanere in Italia (un posto sempre più simile alla Libia), ha di fronte a se soltanto una strada: fuggire, nascondersi, restando in clandestinità e tentare di attraversare uno dopo l’altro, gli assurdi confini interni di questa Europa, più prigione che fortezza.

Nel suo viaggio il migrante in fuga incontra sempre gli stessi personaggi: il poliziotto in divisa, il soldato, il volontario della croce rossa che gli offre poco cibo in cambio di una resa, il trafficante che promette un passaggio oltre la frontiera, il fascista che gli spezza due costole di notte mentre dorme in stazione, il cittadino comune che lo guarda, lo guarda. Lo guarda e non fa niente.

Noi abbiamo deciso di agire. E agendo abbiamo imparato a guardare meglio. La rabbia si è trasformata in lotta, l’impotenza in volontà di fare. Noi crediamo che le frontiere siano il frutto della paura, dell’odio, della sofferenza degli esseri umani e vogliamo abbatterle, in senso fisico e ideale.

Solidarietà radicale significa saper comunicare, organizzarsi con i migranti, collettivizzare le risorse, autogestirle, condividere idee e pratiche, costruire una lotta comune. Significa abbattere le frontiere mentali per poter annullare quelle fisiche.
Il razzismo è il frutto marcio del colonialismo e dello sfruttamento, è la scusa, la spiegazione alle ingiustizie sociali che gli idioti danno a sé stessi, fomentati dalla propaganda fascista dei politicanti.
In controtendenza con questo, vogliamo liberarci dal pensiero coloniale che vede il migrante come un debole, una persona da gestire, al limite da aiutare, subordina la sua vita alla generosità e alla carità di chi lo accoglie.

Convinti che la Resistenza sia innanzitutto liberazione dal pensiero fascista, che esclude per identificare, uccide per vivere, immaginiamo comunità meticce, solidali, libere da pregiudizi e conflitti tra poveri, come unico futuro di pace in un mondo senza frontiere.

Noi partiamo da qui. A Ventimiglia, Calais, Idomeni, Marsiglia e ovunque, diffondiamo le reti di lotta no borders.
La solidarietà è la nostra arma contro la guerra.

We are not going back!

NoBorderLAB

Stop War, Not People!

Comunicato sul corteo di Genova 

Sabato 16 aprile un corteo notturno ha attraversato il centro storico di Genova, sfilando per vicoli e le arterie di traffico del centro cittadino contro la guerra e le politiche securitarie e segregazioniste che ne sono la diretta conseguenza. Una manifestazione partecipata, comunicativa, e che ha incontrato il sostegno e l’approvazione di numerose persone incontrate lungo il suo percorso. Una mobilitazione che ha “sanzionato” lungo il suo percorso i luoghi dei soggetti responsabili dell’attuale situazione di guerra sia sul fronte esterno come su quello interno. Responsabili perché parte dell’apparato militare, come l’edificio dell’esercito alla Zecca, sia diverse sedi delle Poste Italiane, che hanno una partecipazione azionaria diretta in una compagnia aerea che “deporta” i migranti, simbolo di come l’ “emergenza immigrazione” sia un business per chi intende lucrarci. É stato poi bruciato un fantoccio manufatto con le sembianze di un gigantesco ragno raffigurante l’Unione Europea in piazza De Ferrari, una performance carnevalesca contro chi alza barriere, rinchiude i migranti in moderni lager, respinge oltre i propri confini, e impone politiche di austerity ai cittadini europei tout court. Ci sembrava necessario denunciare gli infami accordi tra Turchia e UE, che lascia carta bianca al Governo di Erdogan per la sua politica genocida nei confronti dei curdi e collaborazionista con gli Jihadisti, in cambio del “confinamento” dei migranti fuori dai perimetri europei.

Chi si lamenta delle scritte sugli edifici dovrebbe ricordare che la storia dell’umanità è stata scritta sui muri sin dai tempi in cui abitavamo le caverne. Chi si indigna per gli slogan ritmati a gran voce contro le forze dell’ordine, come “tous le monde deteste la police” dovrebbe ricordare i quotidiani “abusi” delle forze dell’ordine che in questi anni hanno mietuto vittime tra numerosi ragazzi, la cui unica “colpa” era essere capitati tra le loro grinfie. Chi si dice antifascista, alla viglia del 25 aprile, ma non fa nulla per combattere contro le formazioni fascio-leghiste, imprenditrici del razzismo e responsabili di attacchi squadristi e di aggressioni anche mortali in tutto il continente da Calais alla Germania, dall’Ucraina alla Grecia, è un ipocrita che ci condanna a rivivere l’ascesa della Peste Bruna in Italia e in tutta Europa. I migranti sono spesso coloro che vivono più direttamente sulla propria pelle le scelte scellerate dei governi di guerra, sia perché subiscono le politiche di aggressione, economica e sempre più spesso militare, nei territori da cui provengono, sia perché subiscono “l’accoglienza” che la fortezza Europa gli riserva, la pesante cappa di militarizzazione che viviamo nelle nostre città con la scusa dell’ “emergenza terrorismo” e che a cascata, con lo strisciante stato d’emergenza permanente, minaccia la libertà di tutti. Pensiamo che il corteo di ieri sia stato un sussulto di dignità per una città di cui la popolazione è sempre stata una stratificazione successiva di popoli e genti diverse per storia e cultura, resistente contro il potere costituito per tradizione. Noi abbiamo ripreso la vocazione “ribelle” di un fiume carsico che ne ha attraversato la storia popolare riemergendo dalla città di sotto, per fare sentire la nostra rabbia contro la guerra e la società che la genera in solidarietà con tutti gli sfruttati di ogni latitudine e le resistenze di cui sono protagonisti qualsiasi forma essa assumono.
Questo corteo è anche il risultato del terzo incontro internazionale della rete No Borders di cui la mobilitazione è stato uno dei suoi passaggi.
Assemblea internazionale No Borders
17/4/16

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Lampedusa – Appello per la chiusura dell’Hotspot

A Lampedusa la mattina del 17 dicembre 2015 è avvenuta una nuova protesta dei tanti eritrei presenti all’interno dell’Hot Spot, protesta che noi sosteniamo ed appoggiamo.

Il motivo della protesta è sempre lo stesso: Non vogliono essere identificati e di conseguenza rimanere in Italia.

Il punto è centrale e apre una serie di questioni:

1) La prima è quella della regolarizzazione dei viaggi e la possibilità di viaggiare in maniera sicura e andare nella destinazione che ognuno sceglie.

2) La seconda è: Perché queste persone hanno lasciato il proprio paese ? Che ruolo ha l’occidente nella destabilizzazione di intere aree geografiche, nella produzione e vendita di armi, nella rapina secolare di materie prime nel “terzo mondo”.

3) La terza questione è legata a Lampedusa: Perché questa piccola isola deve avere una cosi enorme pressione politica, mediatica e sociale ? Lampedusa pur avendo avuto medaglie, riconoscimenti di vario tipo, candidature al nobel per la pace etc etc ha tutt’ora scuole inagibili, una situazione sanitaria precarissima, una continuità territoriale che si deve pagare cara e amara, un territorio completamente militarizzato e tanto altro ancora.

Dalla legge Martelli e con la creazione del centro di detenzione per migranti, Lampedusa è stata scelta come frontiera europea e avamposto militare. Il centro per migranti è stato l’elemento catalizzatore di questo processo oltre ad essere una prigione dove si fa profitto su chi fugge da guerre e sfruttamento.Tutti sanno tutto: dal prefetto al sindaco ai ministri, ma si continua con la farsa della Lampedusa accogliente e della retorica umanitaria delle varie associazioni e confraternite che a Lampedusa fanno grandi guadagni con “l’affare accoglienza”.

La questione delle migrazioni è stata funzionale ad una strategia di guerra nel mediterraneo e nel medioriente, basta vedere come si stanno armando i droni comprati con la giustificazione del controllo delle frontiere, per capire quanto la gestione delle migrazioni nell’alternanza umanitaria/securitaria sia stata importante per mettere in atto alcune scelte di guerra.

Chiediamo con semplici e pochi punti di aderire a questo appello per la chiusura del centro di Lampedusa e la smilitarizzazione dell’isola:

1) chiusura del centro per migranti di Lapedusa (in ogni sua forma Hot spot,Cpsa, Cie);

2) possibilità per tutti e tutte di viaggiare in modo sicuro e scegliere la destinazione desiderata;

3) rifiuto della guerra da parte dell’Italia;

4) cessazione dell’industria italiana della produzione e della vendita di armi;

5) smilitarizzazione dell’isola di Lampedusa.

Facciamo appello prima di tutto ai lampedusani e ai siciliani che condividono con noi le stesse problematiche legate alle migrazioni (alle sue cause storiche e contingenti) e alla questione della militarizzazione. Auspichiamo che questo appello si possa estendere a livello nazionale ed internazionale.

[Collettivo Askavusa – Lampedusa]
Info: askavusa@gmail.com

6 febbraio – Azione Internazionale contro la Fortezza Europa

Per sabato 6 febbraio è partita dal Marocco una chiamata a una giornata internazionale di azione contro la Fortezza Europa, contro le frontiere e per la libertà di movimento, in occasione del secondo anniversario della strage di Ceuta, quando la Guardia civil spagnola uccise almeno 15
migranti che cercavano di attraversare a nuoto il confine. Manifestazioni si terranno a Rabat, Ceuta e in tante città d’Europa: Barcellona, Strasburgo, Berlino, Dresda, Grecia-Idomeni, Praga.

L’erezione di muri e fili spinati, con relative stragi e politiche concentrazionarie di contenimento di migranti, stanno velocemente ridisegnando la carta geografica, sociale, politica e umana del mondo. Restare a guardare non è più possibile.

In particolare è chiaro come questo scenario stia dando forza e coraggio a tutti i movimenti nazionalisti, razzisti e neofascisti d’Europa. Dall’ascesa politica di partiti come il Front National, Alba dorata, Lega Nord, al moltiplicarsi di azioni di strada sempre più frequenti – basti vedere gli attacchi (realizzati in combutta con la polizia francese) contro i migranti nella giungla di Calais o, ultimo in ordine di tempo, l’odioso raid nel centro di Stoccolma –, il quadro si presenta sinistro e l’intervento di ogni sincero antirazzista, antifascista e compagno si fa urgente.

La storia insegna che in periodi di questo genere, la paura e l’odio fomentati per lo straniero creano condizioni pericolose per la costituzione di regimi reazionari. Una guerra civile strisciante, poveri
contro poveri, si delinea inquietante all’ombra di muri e confini eretti in nome dell’identità e dell’esclusione.

Anche Genova non sfugge a questo scenario.
Non è un caso che l’apertura di una sede di Forza Nuova in città, l’azione politica di Blocco studentesco nelle scuole della città, e le uscite e i volantinaggi di Casapound stiano prendendo corpo e coraggio
in questo momento storico. La loro odiosa retorica razzista non può che trarre linfa dalla questione dei migranti e dei profughi, se non viene contrastata.
E sulle basi del consenso le parole deliranti possono diventare pratiche inquietanti. Non a caso più volte in questi mesi i neofascisti genovesi, speculando su questo tema, hanno organizzato volantinaggi e
appeso striscioni in giro per la città. In questo il leader di Forza Nuova Roberto Fiore ha ragione: non ci si può più coccolare nell’immaginario di una città medaglia d’oro della resistenza. L’antifascismo mai come ora non può essere una spilletta identitaria ma deve dimostrarsi una capacità di muoversi tra le pieghe degli eventi per influenzarne il corso.

La giovane rete noborders genovese si è costituita quest’estate dopo lo sgombero del campo di Ventimiglia. L’intento non è quello di fare mero assistenzialismo: l’aiuto pratico nei confronti dei migranti vuole essere il tassello di una logica più ampia.

Secondo un sentire che sta nascendo ovunque, pensiamo che la lotta alle frontiere acquisisca senso nel far fronte comune contro il nemico e nella prospettiva più ampia della costruzione di un modo diverso di
abitare il Pianeta e di vivere assieme. In un mondo in cui i Ministri degli Interni vogliono rendere l’aiuto ai migranti in difficoltà un reato, il salvare una persona dall’annegamento un reato di “contrabbando”, essere per l’abbattimento delle frontiere non è un’utopia ma un gesto minimo di umanità.

Negli ultimi tre mesi abbiamo partecipato a due incontri internazionali di collettivi noborders di tutta Europa tenutisi a Marsiglia. Gli incontri, molto partecipati e sentiti, sono nati col proposito di
organizzarsi a livello pratico e di trovare una linea politica comune ed hanno evidenziato, tra le altre cose, proprio questa volontà di incidere politicamente contro l’ascesa di una politica europea reazionaria, identitaria, securitaria, nazionalista.

Essere in piazza il 6 febbraio è uno dei primi momenti di questo percorso, la presenza in piazza sentita e partecipata è fondamentale. Essere in tanti è quanto mai importante. Rendiamo l’antifascismo una
pratica di lotta quotidiana in un momento storico grave e urgente.

Rete Nb Genova

Prossimi appuntamenti di autoformazione :

3 febbraio – incontro “Eserciti nelle strade”, Pellicceria occupata
6 febbraio – presidio Antifascista e solidale in Piazza san Lorenzo
19 febbraio – incontro “Periferie” con Agostino Petrillo, Pellicceria occupata
26 febbraio – incontro “In ogni caso nessuna purezza” con Andrea Staid, Pellicceria occupata.

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Ricordiamo a tutte le compagne e ai compagni che  il martedì alle h. 19 si tiene l’assemblea  a Pellicceria occupata, siete tutti invitati ad organizzarvi con noi.

Per scriverci: retenobordersgenova@autistici.org

fb: rete no borders genova